LA RIVISTA GENTILE Flipbook PDF

Una monografia scritta a cavallo fra il 2021 e il 22. Per accompagnare il nostro anno a scuola, come insegnanti. Per rif

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Gennaio 2023

LA RIVISTA

GENTILE

Il green pass obbligatorio per entrare a scuola è stata la miccia che ha dato vita a questa rivista. Pensavo che un simile avvenimento dovesse stimolare un dibattito acceso ed erudito fra noi insegnanti. Sono rimasto incredulo, invece, per la mancanza di confronto riguardo a un momento storico così drammatico ed epocale. La scuola è il tempio della cultura, era doverosa una riflessione. Ho coinvolto, quindi, alcuni colleghi con i quali ci siamo riuniti per parlare del mondo in questo presente distopico post 2020. A distanza, insieme ad altri amici, è sorto un percorso parallelo. Ne è nata una sperimentazione di pensiero che lascio libera nella sua forma, ma che riconosco magicamente intrecciata da un fil rouge ben riconoscibile, fra denuncia di un sistema di vita malato ed una forte richiesta di aiuto.

progetto e testi di Tomaso Bozzalla fotografie di Alessia Napolitano



Gilberto Bellino Il blob

Tomaso Bozzalla Il bene comune

Alessandro Ratti L’arte del fare

Luca Dolfi L’improvvisazione

Patrizia Belardi L’uomo ecosistemico

Lorenzo Alfieri La materia cosciente

Antonella Marsilia Memoria

Cristina Coloru Morte

Alessia Napolitano L’anatra, la morte e il tulipano

L’era degli uomini è finita. Questa frase de Il signore degli anelli mi

risuona in testa da due anni, da quando è

iniziata la pandemia. La sua naturale

continuazione, però, vede aprirsi scenari

più luminosi degli orchi. L’umanità di questo mondo sta andando

verso la spiritualità. Siamo anima, spirito e

mente racchiusi nella dimensione terrestre

dentro un corpo fisico. È il nostro destino,

qui, confrontarci con la fisicità e la

finitudine. Il futuro che ci siamo costruiti è dominato

dagli aspetti materiali, è incentrato sulla

forza. La direzione che abbiamo intrapreso ci ha portato a vivere in una società sorda

muta e cieca, ma lampi di risveglio

risuonano dalle cime degli alberi: è il

respiro dentro di noi. Viviamo sempre più

momenti in cui ci accorgiamo di essere

presenti, hic et nunc, nell’atto del vero

ascolto.

Questo è il tempo della visione, del mare all’orizzonte.

Non può essere tutto qua, il mondo. L’umanità non può accontentarsi di poter scegliere

l’auto migliore; la scuola non può ridursi a produrre

tecnici automi senz’anima né spirito; le persone non

possono accartocciarsi dentro spazi virtuali; le famiglie

non possono consumarsi correndo dietro le spese

quotidiane. Il senso di questa vita non può essere

oppresso dalle paure materiali. L’era di questo mondo è finita, è vero, il tempo

dell’anima è giunto. C’è un significato più grande e completo della vita.

Appare ormai chiaro che la via che abbiamo percorso

sia sbagliata e che ci sia qualcosa di nuovo, oggi,

nell’aria, anzi di antico. Che gli uomini inizino a guardarsi intorno, ad ascoltare l’aria, a dialogare col signor tempo, a riscoprire se stessi parte di un tutto.

Prologo

Quando domandavo agli Achuar perché il cervo, la scimmia cappuccina e le piante di

noccioline si presentavano sotto un’apparenza umana nei loro sogni, essi mi rispondevano,

sorpresi per l’ingenuità della domanda, che la maggior parte delle piante e degli animali

sono persone proprio come noi. Nei sogni noi possiamo vederli senza il loro costume animale o senza il loro costume vegetale, ovvero come degli uomini. Gli Achuar dicono in

effetti che la grande maggioranza degli esseri della natura possiedono un’anima analoga a

quella umana, che permette loro di pensare, di ragionare, di provare dei sentimenti, di

comunicare come gli umani, e soprattutto che li porta a riconoscersi, loro stessi, come esseri umani, malgrado la loro apparenza animale o vegetale. P. DESCOLA, Diversità di natura, diversità di cultura, Ed. Book Time, Milano, 2011, p. 14

Il blob Gilberto Bellino Ciao Tommy, sono sugli spalti di un campo da basket e mentre aspetto che Arnould finisca di giocare ti mando un vocale. Sono stato traumatizzato dall’impatto con la burocrazia francese. Sto iniziando finalmente a legalizzare la mia situazione dopo tre mesi. Avevo inviato tutta la documentazione, ma mi sono

scontrato con il mondo della robotica digitale che si muove attraverso algoritmi.

Ed eccoci qua, tre mesi per aspettare un foglio. Dopo più di quarant’anni di vita rincorro papiri

È una situazione in cui ci siamo messi noi umani: i computer sono degli oggetti, così come tutti gli altri utensili, come la lancia o il fuoco, scoperti o inventati apposta per migliorare la nostra qualità di vita, per evolvere.

che mi diano la possibilità di entrare con tutti e due i piedi nella società, così da potermi identificare come architetto. E la mia vita ricomincia ancora una volta in una nuova città. Dopo tutto quello che ho fatto, mi sembra di girare a vuoto e mi faccio domande, ma ho poco tempo per cercare risposte, perché la famiglia chiama. Mia nonna non sta bene. Mi ritrovo a riflettere sulla morte. E la risposta arriva inevitabile dalla vita. Per caso mi sono messo ad ascoltare una trasmissione radio-fonica, argomenti scientifici trattati con una visione anche poetica: parlavano del blob. Ora, tieniti forte, il blob non è un fungo e non è un animale e non è un vegetale, l’abbiamo visto nel film ma nella realtà esiste veramente. Il blob è una roba che abita nei boschi, per esempio, si riproduce da solo ed è una specie unicellulare. Dicono di aver visto il blob più grande al mon

do in una foresta negli Stati Uniti, lungo quasi 1 Km. Recentemente hanno scoperto che il blob è intelligente, cioè è capace di risolvere dei problemi; ma la cosa più sconcertante è che se prendi 50 blob, ognuno di questi esseri unicellulari risolverà lo stesso problema in maniera diversa. Un blob esce fuori da un labirinto, riesce a nascondersi dal sole.

veranno molto più lontano di noi e per questo ben più intelligenti di noi finalmente. Noi abbiamo bisogno del regno vegetale per sopravvivere, mentre le piante non hanno bisogno del regno animale, certo le api e gli insetti ricoprono un ruolo importante, ma il regno vegetale solo col vento ce la farebbe a riprodursi.

Noi parliamo di morte ma non sappiamo cosa voglia dire vita. Geneticamente siamo più vicini a un fungo o a un blob? Risalendo all'origine di tutto, sul grande albero della vita, del quale noi siamo gli ultimi rametti in alto, da che cosa deriviamo noi? Forse se andando a ritroso a guardare il ramo più grande su cui stiamo crescendo, potremmo trovarci una medusa! Noi facciamo parte del tutto, non soltanto del regno animale o vegetale. Dobbiamo aprirci ad altre intelligenze che arrivano da molto più lontano di noi e che arri-

Intanto continuo a scalare e mi sto prendendo qualche soddisfazione. Ho risposto a un annuncio e mi sono ritrovato a scalare con un gruppo di sessantenni fortissimi e adesso ho questi nuovi amici. Continuo a guardare la partita di mio figlio. A presto Tommy.

buio

«Da noi, nella Terra di Marcita», proseguì il Fuoco Fatuo impappinandosi, «è successo qualcosa… cioè continua a succedere… è molto difficile da spiegare… è cominciato col fatto che… insomma, all’est del nostro Paese c’è un lago, o meglio c’era, si chiamava Gorgoglione. E allora è cominciato così, che un bel giorno il lago Gorgoglione non c’era più. Via, sparito, capite?» «Vuoi dire che si è prosciugato?» volle sapere Ukuk. «No», replicò il Fuoco Fatuo, «in tal caso in quel punto ci sarebbe adesso un lago prosciugato. Ma non è così. Là dove c’era il lago, adesso non c’è più nulla, mi capite?» «Un buco?» grugnì il Mordipietra. «No, neppure un buco.» Il Fuoco Fatuo appariva sempre più impotente a spiegarsi. «Un buco è già qualcosa. Ma là non c’è nulla.» Gli altri tre messaggeri si scambiarono rapide occhiate. «E come si presenta, uh uh! questo niente?» domandò l’Incubino. «È proprio questo che è tanto difficile da descrivere», assicurò il Fuoco Fatuo sempre più infelice. «Non si presenta affatto. È… è come… ah, come lo si può dire, non c’è una parola per questo.» M. ENDE, La storia infinita, Ed. Longanesi, Milano, 2019, p. 27

Il bene comune Tomaso Bozzalla “La cultura italiana, riguardo alla scuola, non ha prodotto paradigmi autoriflessivi: l’unico modello disponibile è di matrice fondamentalmente estetica, l’arte di fare scuola. Il resto è soprattutto ideologia politica. […] Può darsi che sia vero che l’Italia non sa bene che cosa vuole dalla scuola, ma è certo che non vuole esserne disturbata.”

C. Scurati, Lineamenti e riflessioni fra pedagogia e didattica, operapizzigoni.it Il ministro dell’Istruzione Bianchi ha esortato i professori a promuovere gli studenti sostenendo che la scuola deve essere inclusiva e affettuosa. Circa la metà dei ragazzi, oggi, in Italia, non è in grado di fare questa scuola superiore in

soli cinque anni. Noi professori non riusciamo a reggere il confronto con le tempistiche dei famigerati programmi (aboliti, ma sempre comunque richiesti), né con il numero delle mai superate interrogazioni e verifiche da esercitare durante l’a.s.; allo stesso modo gli studenti non possono sostenere la mole di nozioni impartite da ciascuna singola materia in

così poco tempo. Questo avviene perché il mondo fuori dalla scuola è cambiato, si comunica in maniera differente già soltanto rispetto a tre anni fa, si parla, si scrive, si legge e si ascolta in modalità che si rinnovano costantemente e questo non può più essere conciliabile con il sistema scolastico adottato ancora oggi in Italia. Questa mancanza d’incontro fra scuola e realtà è causa delle bocciature. Risulta quindi semplicistico lo spot lanciato nel 2021 dal Miur. La scuola di oggi è forzatamente influenzata dalla pandemia del 2020. Nel 2020 qualcosa è successo: così come nel 2001, così come con le guerre mondiali o la rivoluzione industriale, anche nel 2020 qualcosa è successo e ha fatto nascere un altro mondo. Per questo, ed è sotto gli occhi di tutti, i vecchi paradigmi precostituiti in questi ultimi decenni non valgono più.

La scuola del futuro non potrà più essere quella di oggi, perchè la società, ma soprattutto le persone, non saranno mai più le stesse e cresceranno in maniera diversa rispetto all’avvenire che si prospettava prima del 2020. C'è stato uno scarto nella linea spaziotemporale. Stiamo andando molto velocemente verso un altro mondo. Se noi, tutti noi, non contribuiremo al cambiamento della società e quindi della scuola, il tempo farà il suo corso senza alcun intervento da parte nostra e ci ritroveremo perduti senza saperlo. Dobbiamo decidere da che parte stare. Abbiamo un ruolo sociale fondamentale in questo momento: noi siamo la Scuola, il luogo dove non bisogna solo parlare di accoglienza, inclusione ed affettuosità, ma nel quale bisognerebbe anche trasformare queste buone intenzioni in fatti per il bene comune. La scuola dovrebbe portare nuove prospettive: la libertà, come diceva

Lamberto Borghi, è la libertà di tutti, raggiungibile grazie alla libertà di ciascuno, attraverso il dialogo e la conoscenza reciproca. La scuola e di conseguenza la società intera sta pagando un prezzo troppo alto per colpa di una mancanza di critica che vada a toccare le radici più profonde dell’educazione, il senso della scuola all’interno di questo nuovo mondo. Ho la sensazione che non tutti dedichino la propria vita, il proprio lavoro, la propria volontà al vero bene comune, agli altri e quindi a noi stessi. Il limite invisibile contro cui sbattiamo è ben evidente, ma non lo riconosciamo perché a noi bastiamo così. La scuola, sembra fermarsi lì.

È in atto uno studio per far durare le scuole superiori 4 anni invece che 5; inoltre sono stati presi dei provvedimenti che puntano al rafforzamento della formazione professionale e degli istituti tecnici superiori per favorire l’inserimento degli studenti nel mondo del lavoro. In questo modo si dice a chiare lettere che non si ha coscienza di quanto sta succedendo nei Licei, dove è palese che uno studente, nella scuola di oggi, non riesca ad avere il tempo di crescere in soli 5 anni (figuriamoci in 4) e si esplicita altresì la volontà di allontanare dalla scuola il concetto di “fare cultura”, per sostituirlo con facili slogan rivolti al mondo del lavoro. Grandi pedagogisti, da Freire a Borghi, sostengono che solo rendendo consapevole lo studente del proprio sapere, da lì si possa partire per apprendere ancora e sviluppare il proprio io dalla teoria alla pratica (e ritorno). Purtroppo la direzione intrapresa

va dichiaratamente dalla parte opposta: una scuola che “produce” tecnici e non cittadini (la persona non viene nemmeno vista). “Se qualcuno dovesse chiedere a me, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al Liceo, risponderei: prima di tutto, solo cose inutili, greco antico, latino, matematica pura e filosofia, tutto quello che è inutile nella vita. Il bello è che così, all’età di 18 anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare di tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose.” Agnes Heller, Solo se sono libera, 2013

assecondate come se anni di pensiero pedagogico fossero stati messi in un cassetto (il famoso tempo dell'attesa, della riflessione e della maturazione interiore, tanto studiati da Rousseau a Scurati). Cosa direbbero Ferrière e la sua educazione attiva, o Freire con la pedagogia degli oppressi, o Freinet promotore della tipografia scolastica? La dimensione educativa al lavoro è una produzione culturale, non dovrebbe essere semplicisticamente tecnica nozionistica. Sia nel passato (artigiano) che nel presente (multitasking), il lavoratore è colui che usa la testa e le mani per arrivare a fare una cosa

È come se la scuola, oggi, volesse scindere la società in due classi ben distinte: il lavoro manuale, l’unico scopo di vita a cui ambire, e il pensiero intellettuale e trascendente, mortificato come inutile perdita di tempo. Il mercato del lavoro impone regole al mondo dell'educazione, che vengono

col cuore. Insegnare a vivere separando queste tre componenti è l'opera peg-

giore che la scuola possa perpetrare. Perdendo di vista l’astrazione, il concetto stesso di scuola crolla. Se dall’alto, però, si evoca la promozione di massa per il bene di tutti, diventa difficile provare a formulare un pensiero più articolato e profondo, si è portati ad adeguarsi al ribasso fidandosi del capo. Facendo riferimento ai grandi Maestri, dalla disobbedienza civile di Don Milani, secondo cui ognuno deve crescere consapevole del proprio essere cittadino, dall’antroposofia di R. Steiner all’asso

luto pedagogico di R. Laporta, dove si colloca la scuola in tutto questo? La crisi umana che stiamo attraversando rende urgente e necessaria l’entrata in scena di un grande cambiamento sociale. Se ad essere malata, deviata, è l’umanità stessa, se il contesto in cui la scuola opera vaga senza meta, allora più che mai dovremmo fondare le basi del nostro riscatto proprio all’interno delle mura scolastiche, perchè è il singolo uomo-mattone che forma la società. Come professore sento la necessità

di un pensiero che abbracci quanto sta avvenendo in maniera più organica e completa, proprio come si farebbe per qualsiasi argomento trattato con competenza all’interno di una classe. Se il sistema scolastico fosse contestualizzato al concetto di tempo e di spazio in questo nuovo mondo, se ci fosse una prassi didattica adeguata alla nostra società e uno studio pedagogico ben radicato nelle fondamenta, tutti noi ci muoveremmo verso lo stesso fine: il vero bene comune.

Camminiamo lungo la foce di un fiume fino al mare. Il sentiero è di cemento, senza alberi, c’è

un mini spazio recintato per gli "amici a quattro zampe", tanta sporcizia, sprazzi di prati

incolti e secchi. Incontriamo tumuli di sabbia o altro materiale da cantiere, lampioni rotti.

Sulla sinistra case abitate che sembrano abbandonate, cemento e ferro, sulla destra cumuli

di legna portata a riva dal fiume e dalle maree. Tra gli spazi alcune persone si sono sdraiate a

prendere il sole. Arriviamo ad un locale disadorno dove si gioca alle slot machine. Aperitivi,

musica alta, cani tenuti al guinzaglio, bambini che vogliono il gelato, mamme nervose, papà

annoiati. Si apre un lembo di spiaggia pubblica racchiusa tra gli ombrelloni degli stabilimenti

balneari, una marea di persone accalcate sugli asciugamani.

A proposito di un collezionista di insetti giapponese, Hugh Raffles scrive: “Dopo aver collezionato per tanti anni, ora ha gli occhi mushi, occhi da insetto, e nella natura vede ogni cosa dal punto di vista di un insetto. Ogni albero è un mondo a sé stante, ogni foglia è differente. Gli insetti gli hanno insegnato che i nomi generali come insetti, alberi, foglie e soprattutto natura distruggono la nostra sensibilità ai dettagli. Ci rendono concettualmente e fisicamente violenti. Diciamo: ‘Oh un insetto’, vedendo solo la categoria e non l’essere in se stesso” (Raffles, 2010: 345) E. KOHN, Come pensano le foreste, Ed. Nottetempo, Milano, 2021, p. 168

L’arte del fare Alessandro Ratti Partiamo dal punto di vista. Ho sempre combattuto l’etichetta di artista, ma in definitiva qui con loro io sono anche quello. Il mio ruolo tecnicamente è quello dello scenografo che fa un laboratorio di teatro con un gruppo informale di ragazzi del liceo artistico, sono il formatore di questo laboratorio. Ho un approccio da ricercatore e propongo un percorso da compiere insie-

me a loro. Non insegno, io faccio, non sono arrivato, ma cammino con loro. È attraverso il fare ricerca materialmente che creo arte. Fin dalle prime esperienze di venti anni fa, inizio il percorso con una mappatura: un punto di partenza fisico per dare il senso di orientamento in quel territorio, per poi spaziare seguendo le correnti spontanee che si sviluppano all’interno del gruppo. A settembre erano 25, oggi ne sono rima-

sti 17 ed è un grande successo. All’inizio i ragazzi non si conoscevano fra loro. Nel primo incontro ho fatto una specie di show desk dove ognuno di loro mi presentava qualcosa di se stesso ed ho portato loro piccoli doni: una pietra, una armonica, un pennello. Un ragazzo, per esempio, mi ha fatto vedere tre foto di suoi lavori dal cellulare, non mi sono piaciuti e da lì siamo partiti. in quel momento nessuno si è conosciuto veramente,

vederli ora è emozionante, hanno fatto tutto da soli, io sono stato il luogo del loro incontro settimanale. L’intento è comune.

ma tutti hanno disegnato la loro città andando in giro per le strade ad osservare. Il testo teatrale ci portava verso gli alberi e il

il lavoro lo si fa toccando con mano la creta, il legno e la pittura, le luci, i teli ed occupando gli spazi del teatro. Dovremo ricreare un volto umano che nasce da un albero: siamo partiti senza sapere che cosa ne sarebbe venuto fuori, l’idea nella mia testa era una forma vagamente ovale messa di tre quarti. Il mio insegnare sta nel muovere i ragazzi, indicare direzioni. Ci siamo messi a piegare delle canne e abbiamo formato un rettangolone come base su cui lavorare. Tutto ha avuto origine dai rotolegni, il nome gliel’hanno dato i ragazzi. Nessuno ha finito i 50 metri di carta,

rapporto fra uomo e natura. Ognuno ha scritto il proprio diario di viaggio, il canto degli alberi. Prima di parlare ci siamo messi a guardare le piantine come nascevano dal tombino, abbiamo cercato il tipo di pianta con l'app. In centro città c’è una palma che è cresciuta dentro un dattero; fino a una certa altezza è una pianta, poi dalla stessa ne sbuca fuori un’altra. Inizialmente abbiamo lavorato sulla velocità, sullo schizzo. E intanto si capisce chi è più portato nel disegno, con la matita, con la china, coi colori; col passare delle settimane dò nuovi strumenti in mano ai

A scuola il prof è una figura che dà, fa un altro lavoro rispetto al mio. Mi sento responsabile, come i docenti, per quello che sto facendo, ma lo strumento qui è l’arte pubblica e relazionale.

ragazzi. L’approccio alla sensibilità artistica passa attraverso queste esperienze. Se vedo che uno ha l’occhio scultoreo gli metto davanti la creta. La visione più ampia la tengo all’orizzonte, ma intanto i ragazzi lavorano sul punto, su di loro. Superata la fase dei rotolegni, siamo passati ai video, altro strumento per indagare l’urbano. Ognuno porta la sua visione del mondo: siamo partiti dai dettagli naturalistici, abbiamo cercato di comprendere la natura di un albero perché è questa la ricerca dettata dal testo teatrale. Abbiamo usato piccole porzioni del corpo umano, schiene scoperte, torsi nudi, spacchi di gambe, movimenti di braccia. I ragazzi si sono dipinti a vicenda, superando gli imbarazzi. Uno studente di prima ha fatto il disegno di un albero sulla schiena di una ragazza di quinta. Hanno fatto una serie di fotografie per poi fare un montaggio in stop

motion. Ne sono venuti fuori video molto intensi, con dettagli di ginocchia, muscoli del collo, costole, dita che come piccoli rami crescono. Proietteremo tutto su appositi teli appesi a metà del palco. Gli spettatori siederanno tutt’intorno a cerchio. Da cosa nasce cosa. Abbiamo usato una luce teatrale da studio fotografico; i cellulari fanno video e foto con una buona risoluzione che ci hanno permesso di cogliere i

piccoli particolari della pelle, trasformandoli in nodi di corteccia, in radici o gemme. In tutti questi momenti non c’è mai stata mancanza di rispetto fra i ragazzi, e questo secondo me è dovuto anche al tipo di scuola che frequentano. L’arte insegna ad avere un rapporto sensibile con il corpo. Lascio a loro il mio computer per montare i video e ogni volta mi ritrovo le impostazioni di Premiere stravolte. Abbiamo iniziato a

In piazza una ragazza spiega la sua opera d’arte. Ha trascorso un periodo in residenza in un paesino, ha scoperto la bellezza del parlare con gli abitanti ed è arrivata ad esprimere le sue emozioni in un’opera: il percorso è stato importante, il senso di appartenenza degli abitanti l’ha toccata. All’inizio tutti attraversano questo tipo di considerazioni, già affrontate da milioni di artisti, ma se si ricomincia ogni volta dalla A, nelle scuole la faranno sempre da padrone le attività di educazione artistica. La scuola ha bisogno dell’intervento di artisti professionisti, l’arte deve assurgere alle sfere più alte per innalzare il livello culturale. L’arte pubblica e relazionale non può essere reinventata come novità ogni volta che si va alla scoperta del mondo. È fondamentale che il mondo esterno dentro cui cresce la scuola sia in grado di sporgersi in maniera

dirompente verso il futuro, conoscendo il passato, perché la scuola è il tempo e lo spazio in cui vive.

costruire l’albero con una schiumata di espanso per terra. Abbiamo creato un’installazione multimediale da far girare in loop su tanti monitor, allestito delle luci dimmerabili all'interno di una gabbia di metallo. Questo è fare per me. Facciamo arte. Quindi sono un artista sì. Sono un formatore, un insegnante e uno scenografo. Sono punti di vista. Sono uno che per loro sarà sempre un vecchio.

Oggi le cose scompaiono costantemente, senza che ce ne accorgiamo. È la nostra smania comunicativa ed informativa a far sparire le cose. Le informazioni,

ovvero le non-cose, si antepongono alle cose facendole completamente sparire. […] Presi da questa

urgenza informativa, non possiamo più percepire la bellezza delle cose. Siamo frastornati dalla frenesia

dell’informazione, della comunicazione, senza renderci conto che la digitalizzazione sta

sottoponendo il nostro rapporto con il mondo, la nostra percezione ad un cambiamento radicale: l’ordine della terra si compone di cose, che assumono

una forma permanente e formano un ambiente stabile, consolidato per la convivenza umana; mentre le informazioni, rispetto alle cose, non formano un ambiente altrettanto stabile all’interno del quale possiamo convivere. […] La crisi odierna della libertà è insidiosa perché abbiamo a che fare con una tecnica di potere che non nega o sopprime la libertà, ma anzi la sfrutta. […] Il dominio smart,

invisibile, non incontra la nostra resistenza. BYUNG-CHUL HAN, Lectio magistralis

(https://www.facebook.com/associazionetlon/videos/ 949738202635604)

L’improvvisazione Luca Dolfi Scrive in un saggio Vittoria Dolcetti Corazza: L'improvvisazione è un fenomeno universale che attraversa i secoli, le tradizioni e le situazioni più diverse e che si avvale di forme espressive di vario genere... è legata all'oralità e si configura come un tratto di quella attività poetica, non disgiunta da accompagnamento musicale, che sottolineava particolari momenti della vita sociale sentiti

come importanti e ricchi di significato, per esempio la guerra, la morte, il banchetto ecc. (GIULIANA FERRECCIO, DAVIDE RACCA [a cura di], L'improvvisazione in musica e in lettera-tura, Torino, Harmattan Italia, 2005, p. 18)

Ma anche Cortazar in vari saggi e riflessioni afferma con forza che la maggior parte dei suoi racconti sono nati da associazioni inattese e da situazioni poco definibili e tutt'altro che catalogabili nel

tempo e nello spazio. Racconti nati dunque da atti di volontà improvvisa, da un repentino cambio di attenzione. Tutto apparirebbe fuori da ogni logica, ma è lo stesso Cortazar che ci viene in aiuto: la creazione nasce dalla profondità, la creazione è la consapevolezza inconsapevole della pratica improvvisa. (CORTAZAR JULIO, Entretien avec Omar Prego, Gallimard Paris, 1986, p. 24)

L'idea, in sostanza, si fa luce interiore e determina lo spostamento dello sguardo, là, dove pulsano le possibilità. Appare chiaro che situazioni di questo genere, che si presentano a scuola ogni giorno, devono necessariamente essere sorrette dall'esperienza e dalla memoria di lavoro, in modo che l'iniziativa improvvisa possa dar luogo a un progetto che sappia crescere secondo le esigenze che le sono proprie.

uno spostamento del punto di vista. Se dovessi fare riferimento a un passaggio letterario importante per sostenere questa tesi direi che Hannah Arendt in Che cosa è la politica? esprime in modo straordinario questo concetto: (…) abbiamo realmente il diritto (…) di aspettarci dei miracoli. Non

È il progetto o l'opera ad essere creativa, non l'autore Ogni progetto dovrebbe essere plasmato e rispettato ogni giorno e qualsiasi idea può essere determinante per

perchè crediamo ai miracoli, ma perchè gli uomini, finchè possono agire, sono in grado di compiere l'improbabile

Fluido non ha definizioni, è colui o colei che è, un

giorno in un modo, un altro in un altro. La realtà

come sempre va ben oltre la finzione della schwa che per eliminare le differenze le individua e le

rimarca. Fluido non ha differenze intrinseche, non se

le pone. I ragazzi vivono lì, qui, nel fluido. Noi adulti,

noi professori, ci arrovelliamo per cercare di orientarci

all’interno di tutto questo movimento. Gli studenti

abitano il movimento. L’improvvisazione scardina

dinamiche precostituite ed apre le porte al pensiero

libero, ma gli studenti, oggi, sanno accoglierla e,

grazie ad essa, maturano competenze in più o

diverse?

e l'incalcolabile, e lo compiono di continuo, che lo sappiano o no. Le scienze organizzative, qual è la didattica, spesso dimenticano che l'improvvisazione non significa agire costantemente con l'istinto del momento, ma implica sempre il rispetto e la conoscenza preesistente di disciplina e creatività, che garantiscono l'adattamento dinamico alla mutevolezza delle situazioni. D'altra parte nel mondo globale, e una classe ne è espressione, non è più soltanto importante chiedersi chi siamo, ma soprattutto come possiamo fare a gestire il movimento continuo.

Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo. Vado notando – e non l’ho confidato finora a nessuno – vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso

l’improbabile meta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire. D. BUZZATI, I sette messaggeri, in La boutique del mistero, Ed.

Mondadori, Milano, 1976, p. 20

L’uomo ecosistemico Patrizia Belardi In prima elementare ero terrorizzata dal restare in classe con i compagni: senza la maestra, che per me era l’unico riferimento, mi sentivo sola. Così la seguivo anche in bagno. Ho vissuto l’umiliazione di leggere ad alta voce davanti a tutti, vista la mia emotività che mi faceva vedere una lettera per l’altra (per fortuna almeno non esisteva ancora la sigla DSA). Ricordo il mio primo consiglio di

classe come docente, dovevo scrivere un verbale ed ero intimidita dall’idea di fare errori di ortografia davanti ai colleghi. Racconto questi fatti personali perché a mio avviso la scuola si cambia un docente alla volta. Robin Lim, un’ostetrica di grande valore, dice che il pianeta si salva un bambino alla volta. Il lavoro personale è fondamentale, durissimo e mai finito; c’è la dimensione

collegiale, il lavoro di una comunità mossa da intenzioni condivise, e c’è un’orchestrazione, una visione d’insieme. Condividendo con Bronfenbrenner il modello ecologico dello sviluppo, vedo la scuola come un campo biosistemico. (Ecologia dello sviluppo umano, Bo, Il mulino, 1989) Vedo la scuola procedere un passo indietro rispetto alla vita di chi la abita, eccetto episodi di cultura incarnata,

di insegnamenti trasformativi. Sento che la scuola non è nel qui ed ora, non è nel passato e non è nel futuro. Dov’è allora? Oggi possiamo dire di vivere un trauma collettivo. Questi due anni di pandemia hanno toccato un tema molto intimo che è la paura. Ecco perché ancora una volta è fondamentale il lavoro personale.

Mi spaventa quando continuiamo a nominare a scuola il tema della sicurezza, perché per tutti, ma in primis per i ragazzi, questa parola muove a livello inconscio il tema del controllo, della dipendenza. Non riuscendo a convivere con la paura (di morire), si cerca di creare vere o false sicurezze esterne. Nella nostra società

Non tutte le persone hanno dimestichezza con le emozioni, si tende a volerle eliminare, piuttosto che sentirle ed accoglierle. Nella situazione di trauma si verifica un congelamento e spesso una dissociazione. Così tutte le premesse per un dialogo articolato saltano. Non c’è più una visione critica e soprattutto mobile. In questo momento sento che a scuola non c’è la possibilità per molti di discernere ciò che è più pericoloso da ciò che non lo è. Provocatoriamente mi verrebbe da chiedere: qual è la vera pandemia, il Sars-Covid 19 o la deriva della scuola e del sociale?

l’agio economico di buona parte della collettività ha portato a pensare che il vuoto interno potesse essere colmato da tutta una serie di beni materiali, dall’auto alla vacanza, dalla struttura familiare, anche quando questa genera rapporti mortiferi, al buon comportamento di facciata. Talvolta, e quasi sempre senza averne coscienza, si formulano teorie o credenze per sostenere un’impalcatura che possa mantenere la propria vita immutabile e al

sicuro per non accedere alla parte profonda e misteriosa. Se l’insegnamento non parte dal bisogno radicale di raggiungere la verità, in qualsiasi ambito, relazionale, delle discipline che insegniamo, in noi stessi, non potremo avvicinarci a quella zona vibrante che genera contatto, le nostre parole non saranno vettori di potenza generativa, non attiveranno nell’altro la spinta vitale verso la ricerca. Oggi purtroppo vedo i ragazzi allontanarsi dal proprio corpo, per molti disabitato; li vedo chini e dipendenti dal telefono, pensando così di essere al sicuro. Ho sempre creduto si potesse fare qualche cosa che riuscisse ad incidere su un cambiamento, un’evoluzione. Per questo torno ad investire le mie energie nel piccolo, nelle iterazioni terapeutiche ed educative a due, dove coltivare le domande. Buon cammino cari professori.

Il mondo di oggi andrà nel futuro? È giusto porsi delle domande e andare alla ricerca. È necessario esporsi. La paura del conflitto può essere peggio del conflitto stesso? Il mondo di oggi sembra non avere più spazio né

tempo. L’unico luogo che riconosciamo, all’interno del quale ognuno di noi può avere

l’illusione di esprimersi, è internet. E questa consuetudine ci sta trasformando. Stiamo bene

dentro le nostre aree private. Ciascuno ha libertà di parola senza l’obbligo di ascoltare gli altri. In rete siamo protetti dal non esserci. Passato, presente, futuro perdono di significato.

È come se gli uomini non abitassero più, non avessero più cura.

Senza aver capito con precisione cosa sia il bene ed il male rispetto al nostro obiettivo finale e al vero benessere eterno – piuttosto che rispetto alla ricerca di una gratificazione illusoria e sfuggevole – come possiamo trovare il giusto cammino in questo mondo? Tutta l’umanità

vaga perdutamente per il mondo come se fosse in una foresta, formulando delle teorie

sbagliate sullo scopo essenziale della vita e su come raggiungerlo. M. LAITMAN, Raggiungere i mondi superiori, Ed. Atanor, Roma, 2012, p. 177

La materia cosciente Lorenzo Afieri Ai piedi dei monti Fedriadi, a nord del golfo di Corinto, nella regione greca di Focida, si incontra, adagiato sulla pendice orientale del massiccio del Parnaso, il Tempio di Apollo in Delfi, luogo emblematico per la storia e la religione del popolo greco e sintesi della dialettica tra uomo e paesaggio. Scolpito nell’architrave del tempio, l’effato: Conosci te stesso e Tu sei. Nel passo platonico del Fedro (229E – 230A), si legge: “Io non sono ancora in grado, secondo l’iscrizione di Delfi, di ‘conoscere me stesso’ e perciò mi sembra ridicolo, non conoscendo ancora questo, indagare su cose che mi sono estranee. Perciò dando addio a tali cose e mante-

nendo fede a ciò che si crede di essere, vado esaminando non tali cose, ma me stesso, per vedere se non si dia il caso che io sia una qualche bestia pervasa di brame (…), o se invece io sia un essere vivente più mansueto e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e senza fumosa arroganza”. Sant’Agostino, facendo proprie le suggestioni proposte da Porfirio, contrappone l’indagine interiore alla ricerca della physis esteriore. Questa riflessione gli rivelerà l’immagine trina dell’anima (mens, notitia et amor): la presenza immediata, intuitiva, dell’anima a se stessa indica la possibilità per l’uomo, essere animato dallo spiri-

to, di convertirsi e tornare a Dio. Nella enciclica Fede e ragione di Papa Giovanni Paolo II, riscontriamo la necessità di una ricerca indirizzata alla relazione fenomeno/coscienza, giustificata da quelle domande escatologiche ricorrenti anche nella metafisica che ancora oggi non trovano una risposta esaustiva e che ci interrogano sul rapporto uomo-natura. C’è una forma corretta di percepire? Cosa influenza la nostra intelligenza? La coscienza è già a priori definita o si sviluppa con il nostro corpo? L’architettura dell’essere si riflette nel mondo esteriore o è un riflesso di questo? Che ruolo ricopre il libero arbitrio?

Malgrado le difficoltà nella vita personale che non ci permettono di essere felici, siamo

da tempo immersi in un cammino spirituale e continuiamo ad elargire consigli e precetti

su come rilassarci per entrare in sintonia con noi stessi e col tutto. La medesima contraddizione è insita in noi quando ci lamentiamo del nostro stato di

vita, che appare privilegiato e positivo, a cui, però, non attribuiamo importanza. Sarà pur vero che rivolgendo lo sguardo verso l’altro riusciamo a conoscere noi stessi, ma sono sempre gli altri ad aver bisogno di aiuto, mentre noi siamo le vittime. Forse, pensando agli altri, evitiamo di affrontare il nostro io.

luce

Memoria Antonella Marsilia Ero nella fila lenta di macchine che all’ora di punta rende più denso il traffico su una delle vie principali della mia piccola città, un tardo pomeriggio di pochi giorni fa. Stavo guidando, sola, in un automatismo pigro e alienante, e rimuginavo sulle parole che uscivano dalla radio. Da quando ho ripreso a guidare, appena metto in moto parte in automatico la sintonizzazione su Radio 3. Guidare sentendo

Il mondo dell’africano comune è diverso. È un mondo povero, di una semplicità elementare, ridotto a pochi oggetti base: una camicia, una ciotola, una

manciata di semi, un sorso d’acqua. La ricchezza e la varietà del suo mondo non si esprimono in forme

materiali, oggettive, tangibili e visibili,

ma nei valori e nei significati simbolici

che l’uomo attribuisce agli oggetti più semplici, a infime cose invisibili per i non iniziati. Una penna di gallo può essere considerata una lanterna che illumina il cammino del buio, e una

goccia d’olio uno scudo che protegge

dai proiettili. L’oggetto assume un valore simbolico e metafisico perché così ha deciso l’uomo che con la sua

scelta lo sublima, lo sposta in un’altra

dimensione, in una sfera esistenziale

superiore: nella trascendenza. R. KAPUSCINSKI, Ebano, Ed. Feltrinelli, Milano, 2007, p. 272

parlare di libri a Fahrenheit mi mette in una disposizione d’animo ottimale per farlo senza stress. Non so perché, forse c’entra il fatto che nell’ascolto ho l’impressione di compensare il tempo che il traffico ci ruba con la possibilità di conoscere molti più libri di quanti ne potrei

acquistare e leggere. Poiché poi spesso si parla di uscite recenti, questo aggiornamento costante mi fa sentire più aderente all’attualità, in grado di annusarne le trasformazioni. Così mi illudo di mantenere la mia rotta mentale mentre la storia cambia corso inaspettatamente. In quell’accenno di

crepuscolo di fine aprile, invece, andava in onda Hollywood Party, un programma sul cinema che mi capita di ascoltare piuttosto di rado. Si parlava di un documentario storico sulla Shoah, dal titolo “Storie della Shoah in Italia. I complici”, presentato in diretta dallo storico Amedeo Osti Guerrazzi, che ne è stato curatore. Narra dei collaborazionisti italiani che si macchiarono della tragica colpa di segnalare gli ebrei loro concittadini ai nazisti per la deportazione. Buona parte dell’intervista all’ospite indugiava su una domanda, che a distanza di giorni ancora mi fruga dentro, sul dovere della memoria. Evidentemente la trasmissione era stata programmata come preludio te-

matico alle celebrazioni di rito che si sarebbero svolte il successivo Lunedì 25 Aprile. La produzione storica, artistica e letteraria che narra e indaga gli anni della seconda guerra mondiale e dei suoi prodromi culturali e sociali - riflettevano alla radio - nel corso dei decenni si è stratificata fino a risultare talora ridondante, al punto che anche nel mercato culturale periodicamente sembrano esserci esitazioni sulla necessità di nuove pubblicazioni sui temi dell’olocausto e del nazifascismo. È stato su questo punto qui che il mio pensiero si è andato ad incagliare. Ricordare, dunque, ma fino a che punto, a quale costo? Pochi giorni prima, non saprei dove, avevo letto le paro-

le di una donna, bambina superstite di un campo di concentramento, che rivendicava per sé il diritto alla dimenticanza e al silenzio su un capitolo così straziante del suo passato. Qual è il limite al dovere della memoria? Se smettessimo di ricordare l’orrore incorreremmo più facilmente nel rischio di vederlo ripetersi? Se per paradosso, a furia di ricordare - ogni anno, più volte all’anno, a scuola, nei cinema, nelle piazze le parole, i racconti, le immagini della memoria cadessero in un vuoto scavato dall’abitudine e dalla ripetizione? Se quello della memoria fosse poco più di un esercizio retorico ben collaudato, un rito atteso e dunque prevedibile, poco coinvolgente proprio per i più

giovani che anagraficamente rischiano di ignorare più che dimenticare? Mi sono chiesta se si possa dare un significato assoluto alla memoria, imprimerle una trama e uno spessore perenni cosicché non perda la credibilità che occorre per svolgere un ruolo testimoniale e educativo tanto importante per il futuro dei popoli. Negli stessi giorni era già molto avanzata la cronaca di questa nuova guerra europea che è scoppiata comunque, malgrado “la memoria come monito” e forse proprio perché è stata tradita “la memoria come testimone”. Piuttosto, in molti paesi dell’Occidente democratico sono stati invocati e approvati gesti di cancellazione culturale ai danni di artisti e intellettuali, senza che da nessuna delle istituzioni che si occupano di cultura si sia alzata una voce di sdegno contro l’assurda iniquità di questa damnatio memoriae. Gesti che ancora mi suo-

nano vili, che ricadono oltre i confini della Russia, fin dentro i nostri, istruendoci alla pratica di un dovere di segno opposto. Il dovere di dimenticare, di non nominare, di consegnare all’oblio l’indesiderato. La memoria storica è materia scottante e intricata e gestirla in senso collettivo diventa una grossa responsabilità. Affidarne a qualcuno il controllo non è roba per il primo che capita, perché è perfino ovvio sottolineare come i fatti possano essere facilmente alterati fin dal loro racconto nel mentre che accadono. Chi detiene il potere di decidere se tramandarli o rimuoverli all’improvviso, come se mai fossero accaduti, può veramente cambiare il corso della storia e realizzare quelle che sembrano impossibili distopie. Più o meno erano queste le domande buie su cui rimuginavo alla ricerca di risposte coerenti per la mia coerenza, almeno - che non

mi dessero l’aria di chi è di cattivo umore mentre, giunta a destinazione, mi guardavo intorno cercando un posticino dove parcheggiare. Con un gesto solo si sono spenti insieme motore e radio: le voci che mi avevano suggerito idee e pensieri destinati a rimanere privi di senso e compiutezza, si sono dileguate all’istante. Me ne restava in testa una vaga eco, quasi una traccia psicotica. Sono scesa dall’auto e ho attraversato la strada diretta verso la Chiesa del quartiere in cui vivevo da ragazza. Era la seconda volta in poche settimane che ci entravo, la funzione era già iniziata e mi sono messa in un banco libero a metà navata. Da dov’ero seduta potevo vedere nelle file davanti buona parte della famiglia di mia madre, che è anche la mia famiglia. Ci trovavamo lì per commemorare una zia a me particolarmente cara e in quel silenzio vasto, liturgico e ri-

tuale, ho sentito farsi avanti il ricordo come risorsa e consolazione. Mi si è manifestata d’un tratto e con chiarezza la forza della memoria, quella privata degli addii. Ho pensato che possiamo godere il ricordo degli assenti come un dono, anche quando apre le porte ad una profonda tristezza, e che questo particolare tipo di memoria, autenticamente familiare e prossima, può crescere nel suo valore se oltre al dovere di ricordare ne avvertiamo anche la necessità, come istinto a conservare pezzi di una vita che a tratti è stata anche la nostra. Allora, oltre che essere giusto, nobile e indispensabile ho pensato mentre la messa finiva ecco che questo ricordare ha per me meravigliosamente senso.

Per due ore e mezzo della notte – mi venne un brivido – l’immondo insetto appiccicato alla

piastrella dalle sue stesse mucillagini viscerali, per due ore e mezzo aveva continuato a

morire, e non era finita ancora. Meravigliosamente continuava a morire, trasmettendo con

l’ultima zampina un suo messaggio. Ma chi lo poteva raccogliere alle tre di notte nel buio del

corridoio di una pensione sconosciuta? Due ore e mezzo, pensai, continuamente su e giù,

l’ultima porzione di vita spinta dentro alla superstite gambina per invocare giustizia. Il pianto di un bambino – avevo letto un giorno – basta ad avvelenare il mondo. In cuor suo Dio onnipotente vorrebbe che certe cose non succedessero, ma impedirlo non può

perché è stato da lui stesso deciso. Però un’ombra giace su di noi. Schiacciai con la pantofola

l’insetto, fregando sul pavimento lo spappolai in una lunga striscia grigia. Allora finalmente il cane tacque, lei nel sonno si quietò e quasi sembrava sorridesse, le voci si

spensero, tacque la madre, nessun sintomo più di irrequietezza del canarino, la notte

ricominciava a passare sulla casa stanca, in altri punti del mondo la morte si era spostata a gonfiare la sua inquietudine. D. BUZZATI, Lo scarafaggio, in La boutique del mistero Ed. Mondadori, Milano, 1976, p. 156

Morte Cristina Coloru Secondo la psicologia sociale tutti i comportamenti dell’uomo si basano sulla paura di morire che ben rappresenta l’angoscia e la difficoltà che, soprattutto oggi, incontriamo nel confrontarci con l’ignoto. Heidegger sostiene che gli uomini considerano la morte

come un evento “indeterminato, che, certamente, un giorno o l’altro finirà per accadere, ma che, per intanto, non è ancora presente e quindi non ci minaccia”. Ecco perché probabilmente l’idea della morte la rimuoviamo dalle nostre esistenze, come fosse qualcosa di esterno

a noi, quando invece era così presente nelle culture antiche. Non riusciamo a dare un senso alla morte ma neanche alla vita dal punto di vista esistenziale. In fondo sappiamo che nella vita non c’è niente di definitivo, nulla dura per sempre: si tratta solo di mere possibilità. Aldilà di ogni

credenza religiosa, bisognerebbe ricordare e far proprio il concetto buddista di “Impermanenza” come citato nel sutra del cuore: “Oh Shariputra, la forma non è che vuoto, il vuoto non è che forma; ciò che è forma è vuoto, ciò che è vuoto è forma.” La consapevolezza di questo dovrebbe in qualche modo aprirci all’unica certezza: la morte. Ma ricordarci che dobbiamo morire non presuppone passività e rinuncia, al contrario la vera scelta potrebbe essere vivere intensamente l’esserci, l’attimo. Oggi in tante persone è presente questa angoscia del tempo che passa, il banale e assurdo conteggio di quanto ci resterà da vivere. Forse aveva

ragione Schopenhauer che nel suo pessimismo sosteneva che ci attacchiamo alla vita non perché l’amiamo ma solo per paura della morte: è la vita come morte rinviata. Ma è proprio questo il senso che vogliamo darle? Jung ci dice che “È possibile pensare la vita senza mai viverla. Non si è mai nell’accadere, neppure nel proprio accadere”. Non può esistere morte senza vita eppure in occidente censuriamo la morte: evitiamo di parlarne ai bambini rinforzando la paura di ciò che è nascosto, invisibile. Ma in realtà la morte viene spesso rappresentata attraverso immagini (termine che deriva da yem = doppio) ed è quindi falsata, costruita, spettaco-

larizzata, oggetto di fantasie distorte; ma è pur sempre qualcosa che sentiamo lontano dal vero, è rappresentata ma mai vissuta realmente, elaborata. I mass media alimentano la percezione che la morte di qualcuno sia dovuta sempre a eventi violenti o eccezionali. L’eccessiva esposizione alle uniche immagini di morte reali che vediamo in reportage di guerra, ci portano all’anestesia emotiva per assuefazione. “La morte è dentro di noi, così come la vita. Siamo distratti e non ce ne rendiamo conto, ma mentre stiamo vivendo stiamo in realtà anche morendo” (Thich Nhat Hanh). La morte fa parte della vita; sono parte della stessa cosa. Ma se sono

un tutto unico deve necessariamente essere che nella morte c’è la rinascita, cioè la vita stessa. Non esiste un inizio e non esiste una fine, sono costruzioni mentali che noi esseri umani ci creiamo per misurare il passare del tempo che in realtà non esiste, è una pura convenzione. Trascuriamo l’unico tempo che ci è dato vivere, una dimensione interiore, dilatata, che non conosce un prima e un dopo, quantificabile solo attraverso la misura dell’intensità (S. Agostino, Bergson). Ma nella nostra società occidentale da tempo abbiamo abdicato agli spazi interiori, templi silenziosi del non fare ma dell’essere. Siamo confusi, spaventati anche per-

ché ci è stata da sempre raccontata un’altra storia fatta di un edonismo alla ricerca di effimere gratificazioni, fatta di rimozione o negazione continua di pensieri scomodi perché angoscianti. La nostra società è quella che è stata definita dell’happy end. Oggi più che mai, improvvisamente ci siamo accorti che la morte può arrivare e sconvolgere la nostra quotidianità. E questa paura mista all’angoscia di capire che non tutto è sotto controllo, in questi tempi, ha generato un pensiero debole, grande incertezza e disorientamento, facendo sì che aderissimo acriticamente ad un’unica narrazione che sempre più ci paralizza e ci allontana sia dalla nostra ragione che dal no-

stro sentire più profondo. C’è un termine giapponese, shoganai, che esprime bene il concetto di ciò che non può essere evitato, di qualcosa che può avvenire al di fuori del nostro controllo, l’inaspettato, perturbante sì ma che è anche senso degli accadimenti della vita stessa. Solo quando accettiamo che non ci è dato cambiare delle situazioni, ecco che la nostra mente, senza più ansie e paure, si apre a possibilità inaspettate e impariamo a lasciare andare in modo resiliente e non passivo. Questo concetto, radicato nelle filosofie orientali (taoismo, buddismo e zen), si accompagna a quello di wabi sabi che indica un’estetica della imperfezione

e della evanescenza delle cose, la bellezza dell’asimmetria, della semplicità e dell’intimità, il ciclo naturale di crescita e decadenza; è un modo di pensare, uno stato di coscienza, una pratica anche meditativa, che ci apre a una diversa e più serena visione dell’esistenza. Wabi indica la malinconia e l’imperfezione, Sabi invece rappresenta ciò che svanisce e non ritorna più, il senso, dicevamo, dell’impermanenza che ci porta a vivere intensamente il momento che ci è dato, senza domandarci che cosa accadrà o pensare disperatamente a ciò che non c’è più, con la consapevolezza della mente e del cuore che niente è perfetto e dura per sempre, e proprio in questo è il

fascino della vita. La morte ci restituisce all’Assoluto, all’infinito, impossibile e incomprensibile nella finitudine della nostra vita: è la forma dell’acqua. È vitale e improrogabile pensare a nuovi spazi per una riflessione che consenta attraverso il dialogo di arrivare a rappresentare la morte, grazie a un percorso di consapevolezza e di accettazione del mistero della vita, e che ci aiuti a realizzare che, prima o poi, potrà capitare anche a noi, ai nostri cari o a qualcun altro. Solo così ci si può sentire meno soli, nell’incontro con le paure dell’altro che riconosco come mie.

Questo dovrebbe essere il tempo della compassione nel quale non celare più la morte negli ospedali, nelle strutture per anziani o usarla come arma per generare terrore e senso di impotenza; liberi dalla paura dovremmo imparare ad accompagnare e anche a “lasciare andare”, in nome di un’esistenza realmente e profondamente vissuta.

Ma per un momento, per un istante brevissimo, non chiedemmo

perché. Non pensammo niente se non alle farfalle, le farfalle che si

posavano contemporaneamente sulle nostre teste, sulle teste degli

amici e delle famiglie, su tutti quelli che conoscevamo e tutti quelli che non conoscevamo, sull’intera città. Non muoverti, sussurravamo,

desiderando che potesse durare per sempre. Fermo! SHAUN TAN, Piccole storie dal centro, Tunuè, Latina, 2020, p. 19

L'anatra, la morte e il tulipano di Wolf Elbruch, Edizioni e/o Alessia Napolitano

Molto è già stato detto su “La morte, l’anatra e il tulipano” di Wolf Erlbruch e mi stupirei se fosse il contrario poiché considero l’albo in questione una delle pietre miliari non solo del mio percorso di libraia e di lettrice, ma del panorama mondiale della letteratura per l’infanzia. Mi sono quindi proposta di non fare di questo albo una recensione canonica (ammesso che io sia in grado di farne), ma di riportarvi i pensieri più belli che mi capita di fare mentre, rapita e commossa, ne sfoglio le pagine. I RISGUARDI Un albo racconta una storia fin dalla copertina e non si deve correre alla prima parola scritta per iniziare a leggerlo davvero; le figure si leggono e la struttura di un libro d’autore ha sempre

un senso preciso. C’è un’economia sottesa ad ogni singola parte di un albo e ogni parte concorre a raccontarci la storia. I risguardi spesso sono come un prologo. Nei risguardi de “L’anatra, la morte e il tulipano” c’è un’anatra che ci sembra indecisa, smarrita, forse impaurita. In copertina guarda verso l’alto, ferma, portando il nostro sguardo al titolo. Nel primo risguardo è nella stessa posizione, ma ha il becco rivolto verso sinistra, quasi a contemplare l’effetto prodotto dalla nostra mano quando abbiamo girato la pagina. Sotto al colofon è invece disegnata in movimento, i tratti di Erlbruch ci suggeriscono che ha fretta, l’anatra si dirige a destra e noi istintivamente la seguiamo; ma nel

frontespizio, sotto al titolo, rallenta di nuovo, si gira verso sinistra e pare voler tornare indietro. Nella prima pagina dell’albo, però, si ferma e si guarda alle spalle, dietro di lei la Morte, e in alto le parole di Wolf Erbruch che ci dicono: “Era da un po’ che l’anatra aveva una strana sensazione – Chi sei, e perché mi strisci alle spalle? – domandò.” La storia ha inizio. Con grande maestria quell’anatra, fin dai risguardi, ci ha già comunicato una sensazione, così che quando ci troviamo a leggere l’incipit della storia anche noi, se siamo stati lettori attenti, ci sentiamo confusi, sospettosi e guardinghi. LA MORTE La Morte di Erlbruch è una sintesi perfetta di un

catalogo visivo messo a punto da secoli di immaginari collettivi. Ogni volta che mi trovo davanti alla sua testa di teschio, al suo corpo magro rivestito da quella doppia tunica a quadretti, le mani avvolte nelle manopoline e i piedi infilati nelle pantofole, nella mia mente avviene come un cortocircuito e in un solo istante vedo: mio nonno Mario, alle 11 di ogni domenica mattina trascorsa nella casa pugliese di mio padre, presentarsi in vestaglia sulla soglia della cucina, trascinando i piedi nelle pantofole di cuoio e preannunciare con la sua sola presenza la morte della giornata (non si sarebbe potuti uscire fino alle 5 del pomeriggio); l’ultimo capitolo del film dei Monty Python, “Il senso della vita”, con Il Tristo Mietitore avvolto in un nero mantello e la falce in mano, in un’atmosfera grottesca che mescola sapientemente iro-

nia e terrore; Comare Morte con la candela del medico in mano nella fiaba dei Fratelli Grimm; Amleto che parla al teschio di Yorik nel grande dramma shakespeariano; gli occhi di brace dello scheletro infilzato nello steccato che circonda la casa della Baba Yaga nella fiaba di Vassilissa; mia nonna, china sui ferri per la maglia a intrecciare una sciarpa di lana mentre con la sua voce rauca e dolce mi racconta di mia madre e della mia infanzia; e sento, sento la canzone di Angelo Branduardi “Sjarazule, marazule” nella versione italiana dal titolo “Ballo in fa#” o “danza macabra” al verso in cui dice “Sono io la morte, e porto corona, io son di tutti voi signora e padrona, e davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare, e con l’oscura morte al passo andare”; e sento la ninna nanna che mia madre mi cantava per farmi ad-

dormentare che finiva così: “mamma oggi, mamma ieri e le sporte non son panieri e i panieri non son le sporte e la vita non è la morte e la morte non è la vita, e la canzone è già finita”. Ognuno di noi di fronte alla morte di Wolf Erlbruch ha il suo personale cortocircuito come è giusto che sia, ma questo perturbamento, fondamentale per poter comprendere davvero la storia narrata ne “L’anatra, la morte e il tulipano”, può avvenire solo in virtù degli archetipi che quell’immagine all’apparenza così semplice contiene: il vecchio o la vecchia, il buio del bosco, la soglia, l’impiccato, la strega. Al suo cospetto echi profondi risuonano nella nostra memoria conscia ed inconscia: i riti funebri e le rime per tenere lontano il malocchio, le filastrocche dei bambini, i dipinti o le immagini di morte che

hanno attraversato il nostro cammino, storie lette nei libri o solo raccontate. E queste cose sono tanto vivide in noi che alla fine ci si confonde, e non si sa più se sia la Morte di Erlbruch ad essere così potente grazie alle storie che ci sono state tramandate, o se sono le storie ad affiorare grazie alla potenza di questo straordinario illustratore; ma quando ci troviamo di fronte a questa domanda, è molto probabile che più risposte siano vere contemporaneamente e che quindi abbiamo la fortuna di trovarci al cospetto di una rivelazione. LA TENEREZZA Nel turbamento che l’immagine della Morte di Erlbruch porta con sé, è nascosto un tesoro, una luce segreta che rende quel turbamento ancora più efficace: la tenerezza. Come si può provare tenerezza per la Morte venuta

a prendere la vita di un’anatra tanto cara? Eppure la Morte parla con gentilezza, i movimenti del suo corpo sono delicati, lenti, quasi impacciati. È timida questa Morte e porta con sé un fiore, un tulipano nero, pronto a essere lasciato come una preghiera sulla tomba di qualcuno. Le pantofole che indossa le concedono un passo felpato, non la si sente arrivare, ce la si ritrova accanto sorridente con indosso non un nero mantello, ma una specie di pigiama. Che strano accorgersi di non averne paura, la si può perfino abbracciare e l’anatra infatti lo fa: poiché la Morte ha freddo dopo il bagno nello stagno, lei con le sue piume calde si abbandona quieta sul suo corpo scheletrico – che possiamo solo intuire sotto la tunica – mentre la Morte rimane rigida in preda a un desolante imbarazzo. Vorremmo dirle “Rilassati!”, ma forse ci

sono dei tabù così radicati da determinare il modo di essere perfino della Morte. Wolf Erlbruch sembra dirci che la compassione è l’unica chiave per scardinare i luoghi comuni e sperare in nuovi punti di vista. Tutto questo albo è giocato sul sentimento della compassione, sul terrore superato dalla tenerezza, sul vivere un qui e ora che, a pensarci bene, non ha nulla di spaventoso. IL BIANCO Lo sfondo bianco delle pagine e la mancanza quasi totale di prospettiva, rendono tutta la vicenda sospesa, in bilico. In quel bianco c’è tutto e niente, sta a noi decidere che sguardo avere sulle cose e sul mondo, sulla vita e sulla morte. C’è una tavola in particolare in cui il vostro sguardo è messo alla prova; in quella tavola, sembra dirci Erlbruch, potete testare quale sia la vostra ca-

pacità di vedere, la vostra capacità di essere nella vita. Siamo di fronte ad una doppia pagina: a destra c’è un magnifico albero di amarene, sull’albero ci sono l’anatra e la morte. L’anatra guarda in basso, verso sinistra. A sinistra, sull’altra metà della doppia pagina, non c’è nulla, solo il testo, appoggiato quasi a piè pagina. Il progetto grafico è di Wolf Erlbruch. Il testo dice: Giù in basso, in lontananza, si vedeva lo stagno. Era così silenzioso laggiù, e così deserto. “Ecco come sarà, quando morirò” si disse. “Lo stagno: tutto solo, senza di me”. Come lettori lo stagno lo avete già visto, Erlbruch ce lo ha disegnato solo qualche tavola fa, e le fronde dell’albero di amarene hanno fatto tre volte capolino dal margine

destro della pagina. Il paesaggio è già dato, avete tutti gli indizi per vederlo. Ma se in questa doppia pagina lo stagno ci fosse stato davvero, se Wolf Erlbruch si fosse preso la pena di dipingercelo ancora, questa tavola non sarebbe stata così perfetta e potente. Se lo stagno lo vedete o ne avvertite la presenza e se riuscite a commuovervi per la solitudine che comprende, allora saprete che il bianco de “L’anatra, la morte e il tulipano” ha per voi un significato preciso. IL CORVO Lo stagno invisibile è a sinistra, nella parte dove non si può tornare, perché questo ci dicono le regole dell’iconografia; bisogna andare avanti, bisogna continuare a girare le pagine, verso destra. Un’altra doppia pagina.

Ci sono ancora la Morte e l’anatra sull’albero e parlano, parlano dello stagno, anche se ormai ce lo siamo lasciati alle spalle, nella doppia pagina precedente, solo e desolato. L’albero è a sinistra questa volta. L’anatra dice che sugli alberi si fanno strani pensieri. Sulla pagina di destra non c’è testo, ma solo un corvo, ha il becco aperto e noi lo sentiamo gracchiare. Vola verso destra. In quella macchia nera sul foglio bianco noi avvertiamo qualcosa, un presagio. L’AZZURRO Un dolcissimo azzurro invade all’improvviso la pagina quando l’anatra smette di respirare. Il cielo acquista un peso e inizia a nevicare. La sospensione del bianco cessa. “Era accaduto qualcosa” dice il testo. Quando l’ana-

tra muore, la vita prende possesso della storia e finalmente la possiamo vedere. Eccola, c’è sempre stata, come lo stagno, come il grande fiume. Mi vengono in mente i titoli di coda del film di Lars Von Trier “Dogville”, quando, per la prima volta, ci viene mostrato il villaggio e il paesaggio circostante, mentre durante tutto il film non abbiamo visto che il palco di un teatro con segni bianchi sul pavimento nero a indicare i perimetri delle case: uno spaesamento ci coglie perché quello che abbiamo solo immaginato improvvisamente appare, così nitido e così vivido da sembrarci più irreale dell’assenza delle cose. Come se vedessimo per la prima volta. Forse che la Morte porti con sé il mistero della rivelazione? IL TESTO “Sei venuta a prendermi?” “Ti starò accanto

per il tempo che ti resta, nel caso…” “Nel caso?” domandò l’anatra.

Morte, e si mise seduta. “In ogni caso le ali ce le hai già”.

“Sì… nel caso ti capiti qualcosa. Un brutto raffreddore, un incidente: non si può mai sapere.” “E all’incidente ci pensi tu?”

Questa è una delle risposte della Morte che preferisco. Non ci accorgiamo di quello che abbiamo finché non smettiamo di proiettarci fuori di noi, e, a volte, una visione ideale non è migliore di una reale. Vedere il mondo dall’alto per l’anatra è già possibile (e anche per gli esseri umani), stare su una nuvola no, ma passarci attraverso certamente. Chiaramente in questa risposta c’è un doppio registro narrativo, uno più beffardo e uno più filosofico, ma mi piace pensare che la filosofia e l’ironia abbiamo molto da spartire.

“All’incidente ci pensa la vita, come anche al raffreddore, e a tutte le altre cose che possono capitare a voi anatre. Per esempio la volpe.” Trovo che la riposta della Morte “all’incidente ci pensa la vita” sia così vera e puntuale nella sua semplicità da ribaltare in un sol colpo la prospettiva delle cose. Possibile che la Vita collabori con la Morte? Possibile che ci sia un patto segreto tra le due? “Certe anatre dicono che si diventa angeli e si sta seduti sulle nuvole e si può guardare la terra dall’alto.” “Possibile” disse la

“Certe anatre dicono che nelle viscere della terra c’è l’inferno, dove si finisce arrostite se non ci si è comportate da brave anatre”. “È sorprendente ciò che vi raccontate voi anatre. La verità è che non

lo sa nessuno”. “Nemmeno tu lo sai!” strepitò l’anatra. La Morte si limitò a guardarla. Nei due brevi dialoghi appena riportati, Wolf Erlbruch spazza via senza troppi convenevoli la visione più comune sulla vita dopo la morte; paradiso e inferno, bene e male, nuvole e fuoco. Ogni dicotomia in questo albo è messa al bando. Cosa resta dunque? Wolf Erlbruch fa dire alla Morte che nessuno lo sa; ma se è la Morte la prima a non saperlo cosa racconteremo nella prossima storia? In quel non lo so, come nel bianco delle pagine, ci sono tutte le storie possibili, sono comprese tutte le risposte. A voi riempire il vuoto con la vostra visione perché la sola cosa che potrete donare ai bambini che vi chiederanno cosa ci sia oltre la vita è la vostra verità. La Morte e l’anatra sono esseri universali, per que-

sto laici, ma così spirituali da lasciare aperta qualsiasi strada. La seguì a lungo con lo sguardo. Quando la perse di vista, la Morte quasi si rattristò. Ma così era la vita. Con questa frase finisce l’albo: Ma così era la vita, non la morte, così è la vita. Un susseguirsi infinito di morti e nascite. Il resto lo lasciamo dire al grande fiume che scompare in alto, sull’angolo destro della tavola perché per noi è già ora di voltare la pagina, di andare avanti. È ora di chiudere il libro e di vivere, di volare, di fare il bagno nello stagno, di arrampicarci su un albero. IL TULIPANO E nella quarta di copertina è sbocciato un tulipano.

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