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A067 VERSO ALTRI CIELI E ALTRE TERRE

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UN ALTRE MÓN ÉS POSSIBLE
Comunicació Oral Títol BABELARTQUÍMIA.CAT Autoria i correu electrònic de contacte Teresa Forcada Mañé ([email protected]) Resum (abstract) d’une

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Generalitat de Catalunya Departament d'Ensenyament Institut Bellvitge Departament de Matemàtiques Estiu 2011, 1r d’ESO Com podeu observar, com a tre

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ADRIANO ARLENGHI VERSO ALTRI CIELI ED ALTRE TERRE LA MEMORIA D'ADRIANO 2022


copertina di Patrizia Orlando curatrice Nella Massone


ADRIANO ARLENGHI VERSO ALTRI CIELI ED ALTRE TERRE LA MEMORIA D'ADRIANO 2022


Se ne vanno. Vanno verso altri cieli ed altre terre. Io li accompagno con un ciao, un arrivederci, un addio. Sono gli amici con i quali hai costruito la tua identità, passato le tue giornate, sono le cose che hai amato e che sono sempre state parte di te. Poi accade che un giorno qualcuno ti scrive che non ci sono più. Te ne fai una ragione e prosegui. Il pensiero ogni tanto torna a loro e la cosa strana è che a volte non sei neppure sicuro che non puoi più vederli. Tanto essi continuano a popolare il tuo immaginario ed i tuoi giorni. Questo libro raccogli gli addii e saluta tutti coloro che sono partiti, li saluta con affetto sapendo che un giorno torneranno a farsi vivi. Da qualche parte dell’universo.


ERMANO E tutti, ma proprio tutti sbagliavano a chiamarlo, perché sembrava innaturale quella “enne” solitaria. In banca per quaranta lunghissimi anni ha ascoltato le richieste della folla dei risparmiatori, ha fornito una risposta azzeccata a chi gli chiedeva un parere, un’ idea, una proposta. Poi nel sindacato si è messo a difendere tutti, belli e brutti; a quel tempo c’ era ancora la “modernità solida” e i sindacati erano corpi intermedi di tutto rispetto. Poi la vita, la sfortuna, il destino, vai a capire il motivo, si è accanita contro di lui e la fortuna gli ha girato le spalle. Eppure lui aveva ancora tante parole e sogni e storie e sguardi da raccontare. Questo in verità succede un poco a tutti, non siamo mai pronti, ci sembra sempre troppo presto per partire, per andare a scalare la montagna. Classe ‘54. Come la mia, cominciano i primi, le avanguardie, silenziosamente ad andare via, spostarsi dalla città sul piccolo torrente Arbogna a quella grande sull’immenso fiume Lete. Oggi verremo in tanti per il saluto, per l’ultimo saluto. E ricorderemo un sacco di cose, i prof. spariti nella nebbia, i volantini rivoluzionari davanti alla scuola. Ricorderemo dei treni e del tempo che scap-


pa via in un sorso di vento. Delle strade di qui e della montagna frullata di neve. Di tutto e di niente. Succede da millenni, c’è questa donna che viene con la falce e ogni volta è sempre uguale e sempre pensiamo non ci riguardi. Chissà perché a me, ti sarai chiesto. In un giorno di festa, come si può morire proprio di domenica, con l‘estate ormai dentro le tasche e il vento leggero dell’alba che spinge verso pensieri sottili? Con il riso nei campi che ancora deve maturare e alzarsi verso le stelle e che oggi ti guarderà benevolo, salutandoti e muovendo i chicchi. Ancora acerbi, ancora informi. Più che un saluto, questo allora sarà un abbraccio. Oppure una preghiera.


CINZIA Le notizie tristi arrivano all'improvviso. Le attendi, ma poi quando le vedi scritte nero su bianco non ci vuoi credere. Cinzia, dicono tutti gli amici, non è più tra noi. A conoscenza del suo male e con la consapevolezza che questo non l'avrebbe perdonata sperava di poter arrivare fino a San Patrizio, una festa irlandese a lei cara e le cui canzoni conosceva a memoria e che cantava alle feste con gli amici. Cinzia faceva parte del gruppo musicale dei Gandaranda, espressione musicale dell'Associazione Culturale Il Villaggio di Esteban. Un gruppo musicale che prendeva il nome dalla frase dialettale "g’andarà ‘ndà cà'" che si dicevano lei e il violinista Franco, quando veniva notte e la voglia di continuare a provare canzoni non ne voleva sapere di lasciare spazio al sonno. “Una parte della nostra storia e della nostra associazione se ne va con lei” dice Stefano del Villaggio di Esteban, associazione ai cui incontri lei aveva sempre partecipato, cantando e suonando nelle piazze di tutta la Lomellina, con quella sua energia e quel desiderio possente mai pago di regalare agli ultimi della terra un mondo più giusto. La stessa forza che ogni volta esprimeva quando si candidava per Rifondazione, quando mi chiamava come "poeta" a leggere, da-


vanti alla sua classe di bambini della scuola elementare di Borgolavezzaro, le parole che creano meraviglia. Poi, nel momento in cui la vita sembrava sorriderle, Cinzia, con i suoi capelli rossi e la voglia di cantare la vita, ci ha lasciato Giungono telefonate da tanti luoghi e tutti ci dicono una sola cosa: saremo lì domattina, sabato, alle ore dieci. Saremo lì al cimitero di Mortara. Per dare l'ultimo saluto e leggere il nostro ricordo di Cinzia. Perché ci ha lasciato troppo presto lei che aveva riempito di musica e di canzoni le strade e le piazze della Lomellina. Aveva fatto crescere tanti studenti alle primarie, insegnando loro il piacere della cultura; poi aveva lasciato i bambini per dedicarsi agli studenti stranieri, insegnando loro nostra lingua e soprattutto l’arte di diventare buoni cittadini. Cinzia ce la ricordiamo in mille occasioni. Nelle piazze a festeggiare il 25 aprile, nella sua casa dove viveva insieme alle sculture della Professoressa Rina Bonacasa insieme ai suoi amati cagnolini, nelle lunghe camminate notturne nelle campagne lomelline che terminavano sempre con poesie, affabulazioni, pizzette e buona birra. Aveva scritto i suoi racconti nel libro “Storie in Condominio” e il suo editore Riccardo Sedini domani verrà da Sale per dedicarle un ricordo. Fra una manciata di giorni avrebbe do-


vuto ritirare il premio di poesia a un concorso nazionale al quale aveva iscritto i suoi studenti del corso A1 CPIA; avevano vinto con una poesia di grande spessore. LA CHANCE - L'OPPORTUNITA' Mare - il MARE - mare Freddo - paura - odori SOGNO Caldo - sole - casa VIAGGIO Sabbia - vento - polvere Sete - fame - sonno NOTTE Niente Luna Niente stelle BUIO Pensieri - pensieri - pensieri Rabbia - sangue - dolore MORTE Acqua - luci - mani TERRA Occhi - sguardi - ancora mani Numeri - nomi - persone TEMPO Giorni - mesi - pioggia e sole: Finalmente rido - il mio cuore riposa ADESSO La mia TERRA - è qui.


Alla premiazione leggerò io per lei questa poesia, e sono certo che quel premio anche lei lo vedrà e piangerà di gioia. Ovunque si trovi. Insomma Cinzia, in qualche modo, domani cerca di esserci. Saremo in tanti lì e solo per te. Per dirti che non ti dimenticheremo e che ne abbiamo fatte tante di cose divertenti insieme. E che per questo, tutti quanti, ti siamo riconoscenti. E poi, quando il dolore sarà diventato tenerezza, pianteremo un albero per te Cinzia, ci metteremo sopra i cuori, leggeremo attorno al verde, le poesie di sempre e la voce familiare del violino di Franco ti accompagnerà nel tuo volo verso l'infinito.


Te l’abbiamo promesso e oggi l’abbiamo fatto. “E’ dentro di noi, Cinzia il tuo canto libero, per sempre”. Così semplicemente con queste parole e con un affetto profondo che rimane nel tempo, al di là del passaggio degli uomini e delle donne su questa terra, le insegnanti della scuola di Borgolavezzaro hanno voluto dedicare a Cinzia la loro targa. Inchiodata ad una albero nel “Bosco del cuore”, nell’oasi della Sciura creata dal Burchvif un'associazione ambientalista conosciutissima in Lomellina. E’ stata una giornata calda quella di ieri, ma non così calda da impedire ad una trentina di amici guidata dal presidente del Burchvif, di “invadere” con le loro voci il bosco, per portare questa targa, non molto lontano dalla ricostruzione di una Stonehenge lomellina. Cosi, nella radura, si sono incontrate parole di poesia e di vita, perché il ricordo della voce e dei capelli rossi di questa insegnante ed amica, strappata troppo presto ai suoi affetti dal destino, possa continuare ad esistere. Un amico ha scritto per lei queste parole: “Io posso ancora ascoltare la musica, ma tu di più. Mi piace pensare che nel tuo nuovo mondo ci sia sempre la


musica ad accompagnarti. Io posso vedere ancora il mondo che mi circonda, ma tu di più. Sei tu che abbracci il mondo e lo accompagni nei luoghi infiniti. Io posso ancora vedere i tuoi passi, ma tu di più. Userai i tuoi passi ora, nei freschi sentieri per nuovi percorsi da scoprire. Io posso ancora vedere i tuoi sguardi, ma tu di più. Avrai sguardi dolci suadenti e penetranti, saranno prefazione per il tuo cammino. Io posso ancora sentire le lacrime sul mio volto, ma tu di più. Sentirai il profumo delle lacrime lasciato sulla terra che hai abbandonato. Io posso ancora chiamarti per nome, ma tu di più. Nel tuo nome ogni volta chiamato sentirai il bene che ti hanno voluto. Io posso ancora danzare fra gli alberi, ma tu di più. Avrai luci ombre e vento fra i capelli che ti porterà sin dove hai mai osato”. Un’ amica ha scritto: “C’è una ragione per ogni cosa. Anche alla morte c’è una ragione. E anche all’amore perduto. Se la morte ce lo porta via rimane sempre un amore. Assume una forma diversa, nient’altro. Non puoi vedere la persona sorridere, non le porti da man-


giare, non le arruffi i capelli. Ma quando questi sensi si indeboliscono, un altro si rafforza. La memoria. Essa diviene tua compagna. Tu l’alimenti, tu la serbi, ci danzi assieme. La vita deve avere un termine, l’amore no”. Mentre il violino accompagnava le parole, il tempo sembrava essersi fermato e il vento si era appoggiato sulle chiome alte per ascoltare, per annuire, per far sapere che avrebbe portato in giro per giorni e notti e ovunque quei pensieri e quelle lacrime. A presto Cinzia. Torneremo ancora qui a trovarti. Tu intanto continua, senza stancarti mai, ad essere sentinella del bello e dello stupore della vita.


LA RINA Emerge improvvisa dalle nicchie del mio computer uno scritto di Cristina Colli dell’ottobre di tre anni fa. Parla della zia, una pittrice di grande forza espressiva. Un pezzo importante dell’arte mortarese che è stato e che non è più. Mi sembra di rivedere Caterina mentre parla davanti ad un the fumante con mia madre, senza fretta, nel nido caldo che cancella l’inverno fuori, alle cinque del pomeriggio di un giorno qualunque. Racconta del suo antico amore verso la pittura, della sua storia un po’ mistica e un po’ mondana, della sua prima scuola, la Brera vivace e caotica degli anni del secondo dopoguerra, che le ha regalato la capacità di buttare dentro ai suoi dipinti e alle sue sculture tutta la forza espressiva e tutti i colori del mondo. I suoi dipinti che conservo gelosamente nella mia casa, sono icone tristi di una Lomellina lontana, sono facce essenziali e profonde, strane giostre e abbazie che sfidano il tempo, i miti, le leggende. Raccontava Caterina, che i suoi dipinti sono oggi in ogni Paese del mondo, dentro alle case di tantissimi mortaresi, gelose reliquie di una pittrice originale che in tasca ha sempre portato la nostalgia e il bisogno di dare anima a ciò che vedeva sulle strade e


nelle piazze della sua terra. Cristina definisce Caterina Bonacasa come “ un’artista originale e unica. La zia Rina una persona eclettica e singolare. Sicuramente un vulcano di idee, ricordi, esperienze, nozioni. Ecco cosa avevamo scritto insieme per il Vaglio nel 2009 ricordando il clima di Brera nel secondo dopoguerra. È così che mi piace ricordarla. “Quando si è anziani, si accendono a lampi i ricordi del tempo passato, visioni lontane di noi stessi e di altri, di fatti e di emozioni, che in certi momenti giungono alla mente in modo chiaro. Essi prendono forma e rivivono, anche se hanno perso la loro freschezza. E così, a tratti, si affacciano alla mente gli anni trascorsi come allieva dell’accademia di Brera, anni speciali perché a ridosso di un evento terribile come la Seconda Guerra Mondiale, perché ricchi di stimoli artistici e culturali, perché fondamentali per la società contemporanea. La mia avventura artistica doveva svolgersi in una metropoli come Milano, in un mondo strano, dove ebbi modo di incontrare personalità famose o che lo sarebbero presto di ventate. Allora, in Lombardia, l’unico Liceo Artistico Statale era quello di Brera. Per essere ammessi era necessario superare tre prove: copia pittorica dal vero, decorazione e geometria. Per ogni prova si avevano a disposizione otto ore consecutive,


non si poteva uscire, si portavano da casa due panini che si consumavano mentre si dipingeva. Le domande inoltrate subito dopo la guerra furono 110, per soli 30 posti disponibili; fortunatamente, nonostante fossi priva di raccomandazioni (purtroppo molto importanti in quel periodo e in quel contesto), venni scelta per formare la prima classe liceale del dopoguerra. Brera era allora il centro culturale e artistico della Lombardia, molto quotato per i famosi nomi che dirigevano le quattro facoltà: le due scuole di scultura erano dirette da Marino Marini e da Francesco Messina, assistiti da altre personalità famose, tra cui ricordo Enrico Manfrini; le due scuole di decorazione erano dirette da Giacomo Manzù e da Achille Funi; quella di pittura da Aldo Carpi, mentre non ricordo il nominativo del direttore di scenografia. L’antico palazzo barocco, fatto costruire dai Gesuiti nel 1600 sull’area del vecchio convento degli Umiliati era sede del Liceo e dell’Accademia di Belle Arti, della Biblioteca Nazionale Braidense, dell’osservatorio astronomico e della Pinacoteca. Le aule del Liceo e la scuola di scenografia erano collocate sotto tre lati del porticato del cortile d’ingresso, ove risiede la statua bronzea di Napoleone Bonaparte del Canova. Altri cortili, come quello detto di anatomia, di scienze e dell’osservatorio astronomico erano pieni di ruderi, prodotti dai recenti bombardamenti. Per liberare i cortili di queste macerie, ci vollero alcuni mesi, come pure per scaricare le ope-


re pittoriche della pinacoteca, che erano state imballate e portate al sicuro. La prima metà dell’anno scolastico fu così disturbata da operai e camion, che andavano e venivano per riordinare tutto il palazzo. D’altra parte tutta la città di Milano era ancora invasa da macerie di palazzi crollati e non era raro incontrare anche soldati di origini lontane, come quelli indiani, che si trovavano a frequentare l’accademia per qualche mese. L’impatto con il nuovo ambiente fu forte: improvvisamente mi ritrovai in un mondo molto diverso da quello rurale della Lomellina, benchè ci fossero pochi chilometri di distanza. Molto importante era allora l’ideologia politica: dopo il 25 aprile, le piazze erano invase da comizi di cittadini che parteggiavano per varie correnti, si stavano preparando le elezioni per formare il primo governo repubblicano italiano e bisognava lottare perché non si formasse un’altra dittatura. Stalin aveva mandato i suoi adepti in Italia a propagandare la dottrina bolscevica, che nascondeva una dittatura violenta sotto un presunto benessere. Naturalmente anche Brera era attraversata da questo fermento politico: l’assolutismo ed esclusivismo sociale di Marx spinse gli artisti ad impugnare queste armi per imporre una nuova arte che fosse all’avanguardia. Si usavano metodi polemici e scandalosi, schernendo e diffamando chi aveva opinioni differenti, cercando di allontanare i docenti contrari alla politica marxista, come per esempio Francesco Messina, credente


e devoto di Padre Pio. Anch’io fui vittima di professori, perché portavo il distintivo dell’azione cattolica sul bavero della giacca e non ero quindi in linea con le loro convinzioni politiche. Il professore Guido Ballo, per esempio, che insegnava storia dell’arte, mentre mi interrogava di fronte a tutta la scolaresca proclamò la sua antipatia nei miei confronti perché insistevo a portare quell’emblema religioso. Spesso a Brera si scioperava senza un vero motivo, era quasi di moda questo atteggiamento, e gli alunni, specialmente i più giovani, erano disorientati, privi di serenità e di sicurezza, frastornati dalla propaganda del nuovo corso. I giovani artisti di Brera proclamavano elementi nuovi per un’era artistica moderna e intanto creavano il caos con gli scioperi. Erano sempre gli allievi dell’accademia a coinvolgere i più giovani del liceo, poiché si lavorava tutti nello stesso palazzo e si agiva così come un’unica famiglia. Durante gli scioperi, si oziava ai giardini pubblici o al parco del Castello Sforzesco, ove si familiarizzava con gli studenti di varie università milanesi. Durante il primo anno di liceo, in una mattinata di sospensione delle lezioni, conobbi al parco un poeta che insegnava all’università: era piccolo e brutto, firmava le sue poesie con lo pseudonimo “Marcus”. Era molto sicuro di sé per le sue capacità intellettive e per la sua eleganza nel vestire: mi dedicava continue poesie, ma non volle mai lasciarmene una, se non in cambio del suo affetto. Non l’ho più rivisto: sono ricordi lontani, foglie morte che rinnovo


dalla polvere che le copre e che cerco di non calpestare per non romperne l’incanto. In quell’ambiente strano e caratteristico dell’arte figurativa dell’Accademia di Belle Arti mi trovai tra personalità interessanti, spontanee e quasi familiari. Giovani con idee balzane, stravaganti ma che avevano in sé quella semplicità e vigoria spirituale che fiammeggiava come brace sotto la cenere. Quell’ambiente mi piaceva e valeva la pena viverci dentro, anche se la politica era per me un fardello pesante e inutile in ambiente in cui l’espressione artistica in sé avrebbe dovuto dominare. Vi erano infatti professori influenti, che proclamavano scioperi e richiedevano a noi studenti di liceo firme per allontanare i docenti che non aderivano al partito comunista. Ma vi erano anche vari giovani all’avanguardia, come Gianni Dova e Roberto Crippa, che esponevano le loro opere (o presunte tali) in un salone del bar di Brera, che si trovava a pochi passi dal nostro edificio, in via Fiori Oscuri, ove si trovava anche la latteria Pirovini, luogo del nostro pranzo frugale. Con il tempo anche questi due ambienti sono divenuti famosi, per il legami acquisito con professori e allievi di Brera, e anch’essi fanno parte della storia artistica iniziata proprio con noi allievi di Brera nell’immediato dopoguerra. Molte opere esposte nel salone del bar e acquistate a poco prezzo, sono state nel tempo rivalutate e, essendosi affermati gli autori, vendute a costi davvero alti.


Ho accennato alla latteria Pirovini, luogo che si riaffaccia alla mia memoria quando ripenso a quegli anni giovanili. Si trattava di una latteria diretta da due sorelle nubili, che preparavano un piatti di minestra per gli studenti di Brera che provenivano da fuori Milano. L’ambiente era insufficiente a contenere sedie e tavolini per tutti, per cui si sedeva chi prima arrivava, mentre gli altri consumavano il cibo in piedi. Il primo giorno in cui feci parte del gruppo che si recava da Pirovini mi trovai molto a disagio, giravo con il piatto di minestra fumante in cerca di una sedia, sperando che qualche giovanotto dell’accademia mi cedesse il suo posto. Ma la cavalleria in quei casi non esisteva, per cui mi fu detto di andare a sedermi in una stanzetta che era tre gradini più bassa di quella dell’atrio. Mi recai in quella stanza con il piatto in mano, attenta a non rovesciarne il contenuto, e fui sorpresa nel trovare dei signori che mangiavano intorno a un tavolo: quando mi videro, mi fecero accomodare tra di loro e, divertiti, mi rivolsero varie domande, cercando di mettermi a mio agio. Io ero imbarazzata: in pochi istanti trangugiai quel cibo e mi alzai per andarmene, avendo capito che erano professori, e non studenti dell’accademia. Il signore che era al mio fianco mi fermò e mi mise nel piatto delle patatine e un pezzetto di carne: io ero in imbarazzo, ma la cordialità e la solidarietà cameratesca di quei docenti mi convinsero a restare tra di loro. Quando mi alzai e mi allontanai ringraziando, gli altri studenti mi applaudirono per


l’atto ardito con cui avevo familiarizzato con i loro professori. Capii allora che in quell’ambiente i gradi e le condizioni sociali non erano importanti, predominavano i valori affettivi, i sentimenti emotivi, la libertà di comportamento indipendentemente dall’approvazione altrui. Era l’ambiente perfetto per me, adatto alla mia originalità, al mio modo di sentire, spontaneo, semplice, umano. Un altro ricordo legato a questa latteria emerge dal passato ogni volta che sento suonare una canzone di moda nel 1945 “Brasil”: nell’angusta latteria Provini, all’ora di pranzo, arrivava un povero vecchietto con il nipotino, che ci suonava la sua fisarmonica questa canzone. Poi il bambino girava con il piattello a cercare l’elemosina: se chiudo gli occhi rivedo quel vecchietto seduto su uno sgabello in un angolo e il bambino miseramente vestito che allungava la sua piccola mano in cerca di aiuto. E’ passato tanto tempo, ma è come fosse ieri, è come aprire una finestra per fare entrare echi lontani che prendono forma e rivivono nella nostra mente. La classe I liceale di Brera dell’immediato dopoguerra era formata da maschi e femmine, che avevano dai quindici ai ventun anni. I maggiori di età erano provenienti da varie città lombarde e avevano sospeso gli studi durante gli anni della guerra, per evitare i bombardamenti delle metropoli. Dei miei compagni maschi ricordo quelli che frequentavo maggiormente per affinità di pensiero: Enrico Tovaglieri (futuro scenografo del film “L’albero degli zoccoli” e dei “Giochi sen-


za frontiere”), Adelio Bianchi, Gelato Busconi e Aldo Ballo, fratello del prof. Guido Ballo. Tra le ragazze, ricordo con affetto Jolanda Amaducci di Cesena, Rina Colombo di Como, Maria Lazzarini di Crema, Brunislava Weeremenco, russa e di religione ortodossa, Ester Molo, ebrea, Gabriella Gabrielli. Di queste tre ho ricordi particolari per le loro vicende umane, durante e dopo la frequentazione di Brera. Gabriella Gabrielli era figlia dello scultore Luigi Gabrielli, che aveva eseguito il ritratto del generale Badoglio, il monumento della “Brigata Lupi” sul Sabottino e la statua di S. Bartolomeo che si trova sul transetto del duomo di Milano: era timida e aveva sofferto molto durante la guerra. Benché il padre fosse un bravo scultore, infatti, non guadagnò nulla in quegli anni difficili e la famiglia era costretta a mendicare il cibo ai mercati; anche in classe era isolata, perché era vestita miseramente e molto riservata: dopo il primo anno non la rividi più, perché aveva lasciato la scuola. Ester Molo era scampata alla tragedia degli ebrei, ma ne risentiva ancora le conseguenze, era timorosa e sempre in cerca di qualcuno che le difendesse, anche se non ne aveva reale bisogno. Nel periodo degli Azimi ci portava gustose gallette, schiacciate e croccanti, fatte con pane azzimo e condite con burro: se chiudo gli occhi sento ancora il sapore di questo cibo così particolare. Ci raccontava che, dopo il matrimonio con un cugino che era suo promesso sposo dalla nascita, si sareb-


be recata a Gerusalemme, per formare il nuovo stato di Israele con tutti gli ebrei sparsi per il mondo. Io, allora, non capivo le ragioni di questi discorsi, ma con il passare del tempo mi sono più volte chiesta se Ester ancora esistesse e se continuava a soffrire per motivi politici, in quella terra senza pace che è la Palestina. Brunislava Weeremenco arrivò in classe a un mese dall’inizio delle scuole: aveva l’aspetto di una signorina matura, con viso e unghie dipinte, vita stretta da una cintura, lunghi capelli biondi, occhi leggermente a mandorla, naso all’insù e bocca ben fatta, alta di statura, insomma un bel tipo. Non parlava con nessuno, non conosceva bene la lingua italiana e colloquiava con i russi dell’accademia. Pian piano diventammo amiche e scoprii che, nonostante l’aspetto facesse intendere il contrario, era una ragazza seria ed equilibrata. Mi raccontò che si trovava in Italia perché il padre era un satellite di Stalin e lavorava come chimico in una fabbrica di Codogno, ove si occupava di propaganda comunista. Brunislava era una brava artista, aveva uno stile personale, fatto di segni scattanti e figure allungate: frequentandola, ebbi modo di conoscere anche gli allievi russi dell’accademia, che apprezzai per la loro squisita sensibilità e delicatezza. I professori che insegnavano al liceo erano tutte personalità forti, con cui mi sono confrontata in modo diretto e molto stimolante. Domenico Cantatore era il professore di figura e aveva sposato la sua modella, una bella signora dagli occhi


azzurri, che spesso lo veniva a trovare durante le lezioni. Lo rividi dopo dieci anni, quando era passato ad insegnare all’accademia e mi presentò ai suoi allievi, tra i quali vi era anche un padre francescano, Costantino Ruggeri, divenuto poi famoso, e con cui ebbi modo di lavorare per opere di arte sacra e finestre istoriate. Il professore mi mostrò allora i cartoni rappresentanti i fatti della vita di Santa Caterina, che egli stava preparando per delle finestre istoriate da collocare in una chiesa senese. Se avessi tenuto tutti gli schizzi che egli faceva sul mio foglio, cancellando le mie linee tradizionali, ora avrei in mano opere dal notevole valore, in quanto egli è stato catalogato tra gli artisti nazionali di un certo rilievo. Io non ero in sintonia con lo stile troppo moderno di Cantatore, non sapevo proseguire l’opera dopo che lui me l’aveva schizzata, per cui cercavo l’aiuto dell’altro professore, Silvio Consadori, più tradizionale e in linea con il mio stile. I docenti di Figura erano infatti due: Cantatori seguiva il primo gruppo di 15 alunni il cui cognome iniziava con le prime lettere dell’alfabeto, Consadori gli altri 15. Il mio professore, Cantatori, era geloso dei suoi alunni e non premetteva che noi chiedessimo consigli all’altro, per cui quando io avevo bisogno di Consadori, mi avvicinavo a Brunislava Weeremenco per chiedergli aiuto mentre lui guidava la sua alunna. Mi sono resa poi conto di avere più volte messo a disagio questo professore, sempre gentile e disponibile: quando venne


a Mortara a dipingere la lunetta del portale della chiesa di San Lorenzo, andai a salutarlo e mi riconobbe subito, anche se erano passati circa vent’anni, e si ricordò dei sotterfugi che usavo per avere i suoi suggerimenti. Il ricordare quei tempi trascorsi nelle aule di Brera fu un vero piacere; lui si interessò a me, a come avessi trascorso quei vent’anni e mi confidò che la lunetta che stava dipingendo non gli piaceva, che la commissione vigevanese aveva scelto il bozzetto meno bello, e che non era quindi preoccupato del fatto che l’umidità dei vecchi muri l’avrebbe probabilmente distrutto. Era cosciente del fatto che nessun dipinto sarebbe vissuto a lungo su quei muri secolari e l’aveva anche comunicato a Don Calvi, il quale volle però ugualmente il dipinto. In questa sede mi consigliò di produrre opere in cotto per le lunette delle chiese medievali costruite con mattoni, mentre solamente quelle rivestite in marmo avrebbero richiesto il mosaico. Mi fu molto utile il suggerimento di Consadori quando toccò a me decorare la lunetta della chiesa di San Pietro in Martire a Vigevano, risalente al 1300. Negli anni di Brera, si diceva che Consadori fosse il prediletto del cardinal Montini, il quale gli ordinava opere sacre: non so se sia vero, ma proprio grazie a lui e a Manfrini ebbi modo di conoscere il futuro papa Paolo VI ed essere introdotta tra gli artisti di arte sacra. Dopo aver consumato il frugale pasto da Provini si ritornava


a Brera in attesa delle lezioni pomeridiane. Come passatempo si girava nei bui corridoi del vecchio edificio, si osservavano le statue erette su alti piedistalli che ornavano i corridoi, si andava nel reparto scenografico, che era sempre aperto. Alcuni professori, che arrivavano da fuori Milano restavano nei loro studi durante le ore del pranzo, in attesa delle lezioni: tra questi vi era il titolare di decorazione plastica, Giacomo Manzù, che qualche anno prima si era affermato con la serie dei “Cardinali” , e il titolare di decorazione pittorica, Achille Funi. Ricordo di averli visti spesso sulla soglia dei loro studi, che erano vicini, a discutere più che a parlare, era evidente che ci fosse poca armonia tra di loro. I corridoi cominciavano a ripopolarsi dopo le due del pomeriggio, specialmente quello centrale, che dava accesso alla biblioteca statale e alla pinacoteca. Mi è capitato due volte di veder passare Giorgio De Chirico: i miei compagni lo fermavano circondandolo e rivolgendogli varie domande. Egli rispondeva con poche parole, tenendo la testa abbassata e la pipa su un lato della bocca. Allora io non sapevo che fosse un famoso pittore, inventore della corrente metafisica, così mi limitavo ad osservarlo, più che ascoltarlo. Fu il primo cappellone che ebbi modo di incontrare: aveva i grigi capelli lunghi fino alle spalle, il naso aquilino, la testa sempre abbassata ed era di piccola statura. Nelle ore del pomeriggio, dalle due alle cinque, vi erano lezioni di modellato, di copia dal vero di gessi decorativi, di co-


pia di nature morte eseguite ad acquerello, di prospettiva. L’assistente del titolare di scultura, prof. Vitaliano Marchini, era lomellino, di Candia, e quasi tutti i giorni ci incontravamo sul treno e sul tram per recarci a Brera. Nei pomeriggi in cui vi era modellato, il prof. Cassino, così si chiamava l’assistente, mi ricordava di prepararmi in anticipo per non perdere il treno: ricordo ancora adesso come tra di noi non ci siano stati grandi dialoghi, in quanto io ero estroversa, mentre lui silenzioso, portato a fissare chi gli si sedeva di fronte e per questo per me fonte di disagio. Lontano dagli schemi artistici tradizionali operavano due allievi dell’accademia, Gianni Dova e Roberto Crippa. Dova aveva la mia stessa età, arrivava dall’accademia romana di San Luca, era alto, biondo e bonaccione. Crippa aveva tre anni più di me, era di media statura, elegante, bianco di carnagione e nero di capelli: era uno dei caporioni dell’accademia ed era molto convinto delle sue idee politiche. Voleva che mi iscrivessi al partito comunista per fare carriera artistica, che tralasciassi le mie tendenze tradizionali per un’arte più moderna e di effetto, come riteneva lui. Era il periodo in cui egli formava quadri con uno stropicciamento di fogli plastici fissati su legno e poi imbrattati di colore; su un lato del quadro spesso metteva una grossa luna nera. Usava la tecnica dell’incollaggio, servendosi di materiali variamente sagomati, che conferivano all’opera un valore astratto. Era appassionato di aeronautica e mi diceva che, appena fosse stato in grado di


acquistare un suo aereo personale, mi avrebbe portata “tra le nuvole negli alti cieli, soli, tra le luci luminose delle stelle”. Povero e caro Roberto che la tua mania per l’aviazione ti costò la vita in un incidente aereo nei pressi di Milano, in età ancora giovanile! Pur avendo il diploma di maturità artistica, per accedere all’accademia dovetti sostenere tre prove: figura copiata da modello, decorazione e modellato. Superate le tre prove, scelsi la facoltà di scultura e la scuola del maestro Marino Marini, il quale si era affermato con la serie dei cavalli. Era più moderno di Francesco Messina, e, visto che io pensavo di esprimermi con forme più stilizzate, cercavo la guida di un artista moderno ed equilibrato. Purtroppo in quel periodo Marini era spesso all’estero, per cui chiesi a Messina se mi accettava tra i suoi allievi; in un primo momento fu negativo, poi, grazie all’intervento del suo assistente Enrico Manfrini, fui accettata. Fu un piacere lavorare con questi due artisti per la loro serietà professionale e per la loro religiosità. Messina credeva nella santità di padre Pio da Petralcina ed era diventato suo devoto, tanto da spingermi ad una visita a questo santo francescano, nonostante fossi scettica. Manfrini, invece, come ho già detto, era molto legato al cardinal Montini. Nella scuola di Marini era possibile eseguire qualsiasi forma bizzarra, anche lontana dal modello, in quella di Messina, invece, era necessario interpretare la forma in senso positivo, mantenendo l’armonia e l’unità delle parti. Marini aveva al-


lora 48 anni, era alto, biondo rossiccio e assomigliava ai ritratti dei personaggi etruschi dell’antichità; Messina aveva 49 anni, era tarchiato, castano scuro; il suo assistente Manfrini era giovane, belloccio e buono, dallo stile più schematico e sobrio del maestro titolare, legato agli schemi tradizionali. Terminata Brera, ho seguito la mia strada, portando avanti la mia personale idea di espressione artistica, lontane dalle avanguardie e dai loro eccessi. Tutti questi artisti, gli ambienti affollati e vitali, i giorni a tratti caotici, ma ricchi di stimoli, sono rimasti nella mia mente e ivi si affollano e mi parlano del passato, come un grande e mirabile affresco di un importante momento storico”


MAURIZIO Una terra abitata soltanto da persone normali che fanno cose scontate e dicono cose banali. Questa sarebbe la Lomellina peggiore. Invece questa è una terra anche di uomini e donne apparentemente un po' strambe, sicuramente fuori dalle righe, ma creative, generose, capaci di piegare i sentimenti, le visioni, gli sguardi del proprio paesaggio interiore e farlo diventare arte. Maurizio Marioli era uno di questi. Abitava a Parona e non era facile trovarlo nel suo atelier, dove forgiava strutture impossibili, nella via principale del paese. Però quando accadeva, ti raccontava il mondo senza farsi pregare. Ti invitava ad entrare nella sua bottega artigiana, ad uscire nel cortile per ammirare le forme a volte suadenti, a volte terribili, che uscivano dalle sue mani. E a goderne. Il suo laboratorio era un santuario, un eremo, una cantina colma di vino e di amore per il bello. Ne uscivi sempre frastornato, per quella eccedenza di forme che i tuoi occhi avevano estratto dalla miniera delle possibilità. L'arte è godimento, è la rappresentazione di un idea, di un sogno, di un pensiero. Nelle sue creazioni c’e-


ra sempre una filosofia: le muoveva e le abitava. Maurizio era strambo come personaggio e forse anche per questo, ero contento di essergli amico. Un giorno noi del Villaggio di Esteban gli avevamo chiesto di portare a Palazzo Cambieri una sua istallazione, per dare una immagine culturale ad una nostra serata di musica e di parole. Un'impresa complicata. Lui non si scompose. Cercò, chissà dove, un mezzo di trasporto adeguato, portò su per le scale l' ”extraterrestre” e lo collocò davanti alla finestra. Senza chiedere nulla in cambio, se non un sorriso ed una stretta di mano. Molti che lo conoscevano solo tramite la sua pagina social, scappavano via subito spaventati quando leggevano la sua presentazione e i suoi post. Come questo: “sto pensando che.... guardo il cielo, questo cielo grigio e infinito, creato da un dio folle che ha inventato la povertà e la ricchezza, la vita e la morte...... probabilmente solo per divertirsi........ e mi girano gli zebedei......” . Sbagliavano, perché Maurizio era un cantiere di idee, una pentola a pressione in ebollizione. Se gli chiedevi del suo lavoro non aveva dubbi e ti rispondeva che era disoccupato per scelta e nullafacente di professione, che aveva studiato presso l'università della strada. Aveva studiato linee elettriche A.T. e impianti petrolchimici presso il "triìli' " Cosa


fossero i triìli nessuno lo sapeva. Maurizio diceva che la sua filosofia era quella di godersi questa meravigliosa vita, godersela nel miglior modo possibile. Così, quando afferrava i suoi strumenti di lavoro e piegava il ferro ed il minerale ai suoi desideri, si apriva negli astanti una oh! di ammirazione. Come quello dei bambini quando vedono i fuochi artificiali per la prima volta. Ora sta cesellando con la lamina d’acciaio tutte le nuvole che stanno sopra la Lomellina e le sta ancorando al cielo.


SAVINA Arrivano notizie che ti colpiscono come una pugnalata e non puoi smettere di piangere. Ci sono amici con i quali hai condiviso per una vita intera storie, pensieri, strade e telefonate, alle volte di primo mattino, quando l’alba insegue ancora i sogni della notte, o a tarda sera guardando la luna e bevendo un bicchiere di vino. Amici per i quali non hai mai voluto smettere di sperare, perché pensi che la vita sia più forte della sfortuna. Non sempre. Savina era il suo sorriso. La sua voglia di interpretare il mondo e renderlo più bello. Era la sua passione nello scrivere per il suo giornale e Dio solo da quante volte ci siamo raccontati e quante notizie ha fatto diventare informazione. Savina era un mare di cose. Era il libro che stava scrivendo e la sua casa sul lago. Il suo gatto e la sua auto gialla e naturalmente erano gli affetti di casa. Era la sua simpatia, la voglia di giocare con il mondo. Nonostante tutto. Di cavalcare come una novella Terzani ogni collina del sapere pur di sconfiggere il drago. Quando le hanno detto che c'era una montagna da scalare non ha avuto tentennamenti e si è messa in marcia per scavalcarla. Poi la montagna è diventata più alta, il vento più severo, la pioggia aspra e ingenerosa e


così non è riuscita a vincere la sfida. Non vi è riuscita? E chi lo dice? Savina è rimasta l’amica generosa di sempre che continuerà a seguirci nel nostro zaino, passo dopo passo. E c'è sempre chi nei giorni in cui comincia l'estate nelle telefonate aggiunge al termine un suo ricordo. Sì che c'è riuscita, dicono i suoi tanti amici quando calpestano il prato verde di Sant'Albino e si imbattono in una targa che parla di nuovi cieli e di nuovi terre. La targa l’avevamo voluta in tanti e alla fine siamo riusciti ad avere l’autorizzazione e ad installarla. Poi una domenica, il 5 luglio, dopo la messa delle dieci della mattina, Padre Nunzio l’ha benedetta e gli amici si sono ritrovati attorno ad essa. Un foglio di plastica con inciso un ricordo, che è rimasto lì a sfidare il tempo e la paura, a raccontare una storia fatta di tanta voglia di vita e di un incrollabile fede spirituale che Savina poneva tutta nel lavoro con le terziarie francescane. Passano i fedeli la domenica, passano i pellegrini della Francigena, passano i ragazzi sportivi, quelli che corrono sempre di buon mattino. Ogni tanto qualcuno ci butta uno sguardo. La stele parla del cielo e della terra, parla della sua fede e del suo giornale. Attraverso questo panno che luccica, steso al


sole, anche Savina parla ai viandanti da un luogo che non è un pezzo qualunque della città. Da un luogo che le è sempre stato molto caro. Così non si annoia, si racconta, dà consigli, si diverte nel vedere i pellegrini sudati con uno zaino orribile sulle spalle mentre alzano lo sguardo al cielo, felici di essere arrivati alla metà. Finalmente. Arrivati all’ostello che li accoglierà per la notte. La domenica per lei rimane ancora un giorno di festa. Padre Nunzio che la conosceva da sempre, dai tempi eroici del Franciscanum, del treno diventato parrocchia, prima di arringare dal pulpito i suoi fedeli la saluta ogni volta, la interpella. Poi ci sono i cani randagi, i gatti in fuga, le ranocchie untuose e i cinguettii dei passeri che la mattina presto fanno un chiasso d’inferno. A tenerle compagnia. Insomma c’è vita nel prato antistante l’abbazia più famosa della città. Dipinta dalla Caterina Bonacasa mille volte, fotografata da tanti. Un punto d‘osservazione invidiabile per catturare il passaggio delle stagioni, segnalare le prime nebbie e le prime gemme, per specchiarsi sul piccolo lago e partecipare alle assise francescane Resiste la stele da tanto tempo. Nessun vandalo ha avuto il coraggio di sporcarla o di estirparla. La pianticella seminata dall' Informatore Lomellino ha


messo radici, crescendo è diventato un albero sano e tosto, un po’ diverso dal salice originario previsto. E scusaci, Savina, se quel salice che avrebbe dovuto farti compagnia non lo abbiamo mai fatto crescere. Ci scuserai sicuramente con una alzata di spalle, dopotutto questo luogo tu lo hai sempre amato comunque. E poi c'è un cielo immenso a farti compagnia e attorno ci sono le voci dei bambini che giocano a palla o cercano di non cadere in sella alle loro biciclette con tre ruote. Aria e prato, quest’ultimo a dire il vero un po’ scalcagnato dai pneumatici degli automobilisti incalliti, si danno la mano e regalano note al tempo. Il vento birichino, raro e intrigante, qualche volta lambisce i rami più alti degli alberi e poi si nasconde, a modo suo gioca e ricorda, sparge stupore e clorofilla. C’è poesia nell'aria, c’è allegria. C’è un senso di attesa, di significato su questo prato. Lo afferra anche il signore un po' curvo sulle spalle che è passato di qui un ora fa e forse anche l’amica Dania che è tornata con un po' di bambini che a fatica martellano i pedali dello loro bici, per ributtare nel fosso le rane pescate ieri. E poi un giorno succede che, andando a zonzo sul video a cercare antichi documenti, ritrovi intatti, come se il tempo non fosse mai passato, gli


bollette del gas scritte in dialetto xchè l'amore per la propria città e le tradizioni non passano per questo tipo di folklore. -Se fossi un gatto dormirei tutto il giorno. -La neve nel mio giardino si sta sciogliendo e stanno spuntando i tulipani. E' primavera!!!!! -Giorno dedicato ai gatti. dedicato anche alla mia su-


per micia: Milly, che possa sempre continuare così alternando lunghi periodi di riposo a stimolanti passeggiatine per raggiungere la ciotola della pappa. -Ma proprio con l'inter il novara doveva vincere??????!!!!! -Scivolare lentamente sul giardino innevato fino a raggiungere la pianta di rosmarino x l'arrosto della domenica, non ha prezzo -Milly la gatta si schioda dalla stufa solo per andare sul termosifone passando prima dalla ciotola dei croccantini e dire che la veterinaria le ha ordinato dieta ed attività fisica!!!!! -Bello veder nevicare dalla finestra, ma tra un pò dovrò scendere a spalarla!!!! se voglio uscire di casa. Ma non passa la "strusa" del comune nella mia via????? -Mario Monti: c'è un grosso lavoro da fare. Traduzione: non c'è trippa per gatti -Piove, piove, piove!!!! non vorrei che prima o poi, ma mi sa prima, l'arbogna venisse a trovare la mia deliziosa tavernetta -Le 5 terre, i paesi più belli del mondo!!! mi viene da piangere e poi se penso a Ciak la Lampara, il mio ristorante preferito, l'angoscia sale!!! esisterà ancora il vecchio Ciak, vernazzino trapiantato a monterosso!!!! il suo mitico ristorante sulla piazzetta... -Innaffio l'orto o aspetto la pioggia?


-Ho dei girasoli alti 4 metri. sono normali? -Il riso in bianco fa già abbastanza schifo di suo se poi lo faccio anche bruciare… -Ed eccomi qua che sto diventando svizzera, come il formaggio ed il cioccolato! da oggi Berna è la mia seconda città. Però murtara l'è sempar murtara -Clir perché hai rifiutato il mio sacco è rimasto lì come un cucu a lato della strada. Perché questa discriminazione e soprattutto dove ti metto ora? -Fave e pecorino. Bho. Preferisco il salam dla duia E in mezzo agli appunti di Savina, un post di Elia Garbelli In questo mondo di ordinaria follia, una piccola storia che una amica, Savina Raimondi ha scitto per un settimanale di una piccola città, Mortara in provincia di Pavia. Un caso di una normalità assoluta, non fosse che certi comportamenti ricorrenti gli danno un sapore antico e umano nel quale é bello riscoprire pietà e amore verso il prossimo:e se fosse toccato a noi? E’ successo la scorsa settimana, in una delle notti più fredde di questo terribile inverno, con la colonnina del termometro che scende molti gradi sotto lo zero per l'esattezza 18. Sono circa la 23,30 quando un sacerdote si accinge a chiudere le imposte della sua casa, come sempre.


Di solito lo fa molto prima, ma quella sera chissà perché ha tardato. Prima però scruta la nottata, fredda, ma molto limpida. Vede il vapore del respiro che diventa vapore, e poi, in prossimità di un edificio disabitato, degli stracci che sembrano muoversi. Non ci pensa due volte ed infilatosi il cappotto va a vedere. Come arriva si accorge che sotto quei cenci ci sono due ragazzi di colore. Fanno fatica a parlare, un po' perché non conoscono bene la lingua, ma soprattutto perché sono quasi completamente assiderati. Il sacerdote li aiuta ad alzarsi, ma i piedi sono gelati non riescono a reggersi. Quasi se li appende al proprio corpo e insieme faticosamente cerca di portarli a casa sua. -Un tratto di strada brevissimo – dice – però impieghiamo quasi venti minuti a percorrerlo. Una volta in casa li sistema vicino al termosifone e gli offre del latte caldo, aiutandoli a bere in quanto oramai i due ragazzi, quasi allo stremo, sono senza forze. Come si riprendono un po' gli propone una doccia tiepida che li aiuta a disgelarsi completamente. Ormai al caldo e tranquillizzati, i due ragazzi incominciano a parlare. Hanno 22 e 24 anni e sono fuggiti dal loro paese per


motivi politici e sono diretti a Milano, dove un loro conoscente, con regolare lavoro, è in grado di poterli aiutare. Giunti con mezzi di fortuna alla stazione di Mortara, non sono riusciti a prendere l'ultimo treno in partenza per Milano. Alla chiusura della stazione sono stati costretti ad uscire nel gelo della notte per cercare una sistemazione di fortuna, che speravano di aver trovato nell'androne di un palazzo disabitato. La notte era troppo gelida ed un androne non costituiva certamente un riparo sufficiente. Se il sacerdote non si fosse accorto della loro presenza, probabilmente i due ragazzi non sarebbero arrivati vivi al mattino. La cronaca avrebbe riportato, ancora una volta, la morte di due senza dimora, notizia che oramai non riesce più neanche a stupire. Il destino ha voluto diversamente. “Hanno trascorso la notte da me – dice il prete – ed il giorno dopo hanno preso il treno per Milano. Dopo qualche ora mi ha telefonato il loro connazionale informandomi che erano arrivati, mi ringraziava per averli aiutati e che presto sarebbero venuti a trovarmi. Questa per me è stata la migliore ricompensa.” Lo racconta così, con il suo sorriso “Nulla di eroico ho solo dato ospitalità a dei ragazzi, chiunque l'avrebbe fatto”. Ma proprio chiunque? E infine un vecchio scritto di Savina pubblicato


un po' di anni fa dall' Informatote Lomellino. Il racconto, interamente ambientato a Mortara e con personaggi mortaresi, mi riporta indietro in un mondo e in una città dove il consumo, delle merci e dei sentimenti, non era vincente, dove la semplicità dei gesti si contrapponeva alla complessità di questo nostro tempo. Dove non c’era l’Asl a controllare la genuinità di un prodotto popolare, come appunto il vino, tanto che poteva essere annacquato allegramente. Non per guadagnarci di più, per fare in modo che i grandi bevitori non si rovinassero salute e fegato e considerassero il vino uno strumento per stare bene insieme e non per annegare la paura della guerra appena terminata e di un futuro pieno di minacce. Di questo sono certo, considerato che l’oste di cui si parla era mio nonno ed io, innocente bambino, gli davo pure una mano. L’osteria era quella in cui ho lasciato i più bei ricordi della mia primavera, un campo di bocce non regolamentare, la spuma nera e la spuma gialla, il cesso alla turca, le torte del “ Nani” chiuse in una teca che mai in tanti anni sono riuscito a rubare. È questo un racconto che accadde proprio la vigilia di Natale del 1942, in un’osteria di periferia di Mortara, di proprietà della nonna del mio amico Adriano, la famosa osteria


dello “Scafin”. Il nome dell’osteria era un altro, ma la proprietaria, mamma di due figlie, non voleva vederle oziare e così quando non c’erano clienti gridava ”Non state lì a fare niente, fate un po’ di scafin”. Gli scafin erano dei ricambi per le calze di lana, il tallone solitamente, che era la parte che si usurava di più e così veniva cambiato recuperando la calza. Per tutti quella era l’osteria dello Scafin VIGILIA DI NATALE DEL ‘42 Era una fredda mattina Del 24 dicembre del’42. L’Italia era ormai in guerra da due lunghi anni e la povera gente aveva sempre meno di che mangiare. I tedeschi erano arrivati anche a Mortara e avevano stabilito il loro presidio in una villa di via Veneto. Incutevano terrore alla popolazione che preferiva girare alla larga dal loro comando. In quella fredda mattina di metà dicembre un uomo, avvolto nel suo liscio mantello, entrò nell’osteria dello Scafin, estrema periferia della città, e disse con voce impastata “Rosina, dàm da bev che iò masà un òm” (Rosina dammi da bere che ho ammazzato un uomo) La Rosina, che insieme al marito Cecu conduceva l’osteria, rimase per qualche attimo incredula, fissò l’uomo negli occhi e riconobbe il Giuàn, che abitava nelle case del Trentatrì fanteria. Il suo viso era sconvolto e sul mantello comparivano delle macchie di sangue. “Giuàn si ca tè fài?” (Giovanni, cosa hai fatto?) disse


piano la Rosina. Nello stanzone di là c’era un tavolo di soldati tedeschi che avevano appena iniziato a pranzare. “L’ho propri masà Rosina,(l’ho proprio ammazzato) non voleva pagarmi la legna che gli ho portato. È venuto a casa mia per cercarmi altra legna ma di soldi niente. Ha incominciato a dirmi che doveva farli arrivare dal comando centrale di Milano. Ma io ho bisogno dei soldi, ho un figlio in guerra, devo mandargli un po’ di danè, ad un certo punto ha incominciato a bestemmiare in tlà so lengua (nella sua lingua). Me niù al sangu davanti ai ioc e l’ò trai sù dalla tromba di scal. L’è stai anca sfortunà perché l’è andai contrà l’urinari che la me Maria la metà lì per poi svuai e…. (mi è venuto il sangue davanti agli occhi e l’ho buttato giù dalla tromba delle scale. È stato anche sfortunato perché è andato a sbattere contro i vasi da notte che la mia Maria mette lì per poi andare a svuotarli)questi tedeschi sembrano tanto forti ma poi…subito ha incominciato a perdere sangue dalla testa e mi son scapà via”. “Ma tì tla cunusiva cul lì (ma tu lo conoscevi quello lì) “Si l’è o l’era l’Astolf”. La Rosina impallidì, sentendo il nome del terribile comandante di via Veneto. “Ma propri cul lì? (ma proprio quello lì) “Si propi cul lì”(si, proprio quello lì) La Rosina tremante portò il Giuan in cucina dove il marito Cecu stava cucinando la trippa per i tedeschi da servi-


re con il merluzzo fritto. Spiegò tutto al Cecu aggiungendo “Adè si ca fumma? (adesso cosa facciamo?) Il Cecu, che era una persona pratica, disse che per prima cosa bisognava vedere il cadavere e poi magari si poteva far passare per morte accidentale, come aveva letto in alcuni libri dimenticati da un cliente di passaggio. Tutti volevano bene al Giuan, sapevano che era una brava persona, un bravo lavoratore. La vita per lui non era stata facile: la prima moglie, la Luisina, era morta di spagnola nel 1918 lasciandolo con tre figli piccoli. Poi per fortuna aveva incontrato la Maria, una brava fiola, ed erano nati il Pinin, ora al fronte e la Carla, che poverina, l’èra nò tropa sana (non era troppo sana), aveva sempre problemi di bronchi. Il dottore, anzi più di un dottore, gli avevano consigliato di portarla al mare e di farle mangiare un po’ di bistecche, ma me sfà? La vita per i poveri era davvero dura. Il Giuan lavurava in ti camp, la Maria s’arrangiava a fà qualche monda o le stagioni al fabbricon quando la chiamavano. Ed ora succedeva questo. Sarebbe finito in galera. Chi avrebbe pensato al Pinin in guerra e alla Carla? Il Cecu, da uomo pratico qual era, incominciò a portare dei generosi boccali di vino al tavolo dei tedeschi. “Oggi offre il Cecu- disse scandendo bene le parole per farsi capire- è quasi Natale e voglio farvi un regalo, bevete alla vostra salute e a quella delle vostre famiglie lontane”


Consapevole poi che il suo vino era un pò dimezzato con l’acqua, diede ordine al Pinot, il suo garzone, di servirne altro e poi altro ancora. Dovevano ubriacarsi intanto che lui vedeva com’era realmente la situazione. Poi uscì seguito dal Giuàn e si avviò sulla scena del delitto. Riverso in fondo alle scale, tra i cocci dell’urinari c’era proprio lui, il terribile comandante tedesco. Sembrava morto. Si avvicinò e vide che respirava ancora. Il sangue usciva dalla fronte, ma la ferita non sembrava troppo profonda. “Portumal fora e po’ ciamùmma il Tony (portiamolo fuori e facciamogli prendere un po’ d’aria). Intanto tu Maria, che era in un angolo dove piangeva e recitava il rosario, pulisci tutto, mi raccomando non lasciare tracce”. Il Tony aveva fama di guaritore, sapeva aggiustare le ossa rotte, ma curava benissimo i vermi, il mal di stomaco, la bronchite. Ne sapeva più lui di certi dottori. Il Tony arrivò, visitò il ferito e sentenziò “slà cava, al mora non ancùra sto bastard” (se la caverà, non muore ancora questo bastardo) “La so anch’io- rispose il Netu- ma bisogna che il Giuan, povar fiò, non ci vada di mezzo”. “Facciamo così- disse il Tony- adesso lo facciamo bere un po’ e poi lo mettiamo in fondo all’orto vicino al campo di bocce, intanto al ciapa niente stu diavul chi (intanto non prende niente questo diavolo qui)”.


E così fecero. Giù grappa al povero Astolf che anche se mezzo tramortito non mostrava di dispiacersene,. Poi lo trasportarono nel campo vicino di bocce. Intanto i tedeschi, ormai ubriachi, incominciarono a cantare canzoni tristi, poi tirarono fuori le foto delle loro mogli e figli distanti ed incominciarono a piangere. La guerra era dura anche per loro. Intanto Guan, Tony e Cecu erano rientrati all’osteria, dove li attendeva ansiosa la Rosina. “Tutto a posto “ disse il Cecu Dopo le enormi bevute alcuni teschi si alzarono per andare in bagno che era collocato fuori nel cortile, ma veniva poco usato. Era più comodo servirsi del campo lì vicino. Si sentirono delle grida. Poi altri si alzarono e corsero fuori. Un soldato giovane rientrò nell’osteria e disse in un italiano stentato “Aiutatemi c’è il mio comandante lì fuori che sta male”.. Subito il Cecu e il Tony corsero fuori. Al Giuan era stato consigliato di tornare a casa e di non farsi vedere per un po’. Lì trovavano il comandante che sembrava riprendersi ora. Puzzava di grappa. “Poveretto- disse un soldato tedesco- si è ubriacato perché si avvicina Natale ed è lontano dalla sua famiglia”. Lo portarono dentro .Il Cecu gli servì la sua famosa trippa


“con questa qui starà subito meglio”. La trippa della Rosina era veramente miracolosa. La cucinava tutti venerdì, in occasione del mercato cittadino e nei giorni di festa. Venivano dai paesi a gustare la sua trippa tanto era buona. Allora la trippa non veniva venduta bella e sbiancata come la vediamo nei supermercati, ma arrivava al naturale. In un lavandinone di marmo veniva lavata e spazzolata alla meno peggio…. Qualche volta non si riusciva proprio a disincrostarla, poco male, veniva cucinata così…C’era sempre qualche cliente che esclamava rivolto alla Rosina “oggi la vostra trippa è particolarmente buona…Sarà anche per questo che il mio amico Adriano la trippa non vuole proprio assaggiarla.. Comunque Astolf sembrava riprendersi bene e soprattutto non ricordarsi più niente di quello che era successo. Gradì la trippa e poi prese anche del merluzzo fritto. Bevve dell’acqua perché di alcol per quel giorno era meglio lasciar perdere. “Su-intervenne saggiamente la Rosina- non è successo niente,tutto bene quello che finisce bene. Sintì la campanà. Incò l’è la vigilia ad Nadàl, stanòt ad nasa al nostr Signur (sentite la campana, oggi è la vigilia di Natale, stanotte nasce il nostro Signore) ed io voglio andare in chiesa a pregare affinché questa maledetta guerra finisca presto”. In tutto quel trambusto il Cecu si era dimenticato quel


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